DI PASSEROTTI, DI TACCHINI E DI UCCELLI PADULO (SUL DUELLO TELEVISIVO TRA BERSANI E RENZI)




Inevitabilmente vuoto, il faccia a faccia tra Bersani e Renzi, che precede il ballottaggio delle primarie del centrosinistra. Non avrebbe potuto essere diversamente: si tratta pur sempre di un faccia a faccia tra esponenti di un partito - qual è il PD - che ha sempre mostrato fedeltà all’austerità del governo Monti. Neppure la supposta necessità di una continuità alla linea dell’attuale governo è stata mai nascosta. La Carta d’intenti sottoscritta dai partecipanti alle primarie, altro non è che il suggello del centrosinistra alle politiche da “Robin Hood al contrario” del governo Monti.

Ed infatti nel duello televisivo tra Bersani e Renzi non si è parlato di Fiscal Compact, di pareggio di bilancio in Costituzione, della riforma del mercato del lavoro e solo un accenno è stato fatto alla questione esodati. D’altronde questi sono temi fuori dalla discussione delle primarie. Il fatto è che le risposte sono necessariamente supine al volere della Troika e sono messe in forma di intenti per il prossimo governo, nella famosa Carta.
Ma mentre i candidati alla presidenza del Consiglio in quota Goldman Sachs… ops! scusate: in quota PD, chiedono scusa alla moglie ed alle figlie (Bersani) o al fratello (Renzi), rimane in sostanza senza risposta il dramma di 350.000 persone lasciate nel limbo tra lavoro e pensione; rimangono i tagli alla sanità e la negazione dei diritti sul lavoro; rimangono disoccupazione e morti di lavoro; rimangono povertà diffusa e riduzione dei servizi. Chi vive quotidianamente quei drammi non riceve scuse. Mica è colpa di Renzi e Bersani se c’è stata una riforma del lavoro ed una delle pensioni; mica è colpa del PD se il pareggio di bilancio messo in Costituzione ed il Fiscal Compact saranno un massacro sociale: è che lo chiede l’Europa (sic!).
 
Quelle questioni, che riguardano il Paese reale, che sono vissute nella vita di ogni giorno di milioni di persone e che si fanno dramma quotidiano, non sono contemplate negli studi televisivi. E quando, in maniera fuggevole, ci entrano, è solo per richiamare, chi subisce e dovrebbe essere protetto, ad una responsabilità che è di altri e cioè delle banche, della finanza e, al fondo, del capitalismo inevitabilmente in crisi, che invece vengono salvati. “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” affermava Debord.
Eppure c’è chi continua a nutrire vane speranze in un cambiamento di rotta che possa passare dal centrosinistra. E Vendola in questo senso fa la parte dell’imbonitore, quando afferma di non poter sostenere Renzi, perché “non ha alcun cenno critico verso l'austerity e la cultura liberista” e che “sul piano del lavoro, è più a destra dell'Udc”. Come se Bersani non avesse votato i provvedimenti di assoluta austerità, figli della più estremista cultura neoliberista. Si vorrebbe far credere che con Bersani alla guida del centrosinistra e del Paese, attraverso un accordo politico con Sel si possano modificare in meglio le condizioni di lavoratori, studenti, pensionati. Ma, come diceva Ernst Bloch, il filosofo della speranza, “non ci si deve solo nutrire di speranza, bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare”. Ma se gli ingredienti sono gli stessi, sia per Renzi che per Bersani, la speranza di un cambiamento reale avrà comunque il cattivo e amaro sapore della disillusione.

A quel punto ci si accorgerà che mentre Bersani fa la sua scelta “tra passerotti in mano o tacchini sul tetto”, indisturbato continuerà a volare basso il solito uccello padulo.

PATTO PER LA PRODUTTIVITÀ: LA GENERALIZZAZIONE DEL RICATTO DI MARCHIONNE




Come al solito, quando si prefigura una fregatura per i lavoratori, si alzano in coro autorevoli voci e si muovono autorevoli penne, per giustificare la necessità di sacrifici, di collaborazioni tra lavoratori e padronato, di maggiore senso di responsabilità (anche se quest’ultimo non sempre è chiaro verso chi debba essere rivolto). Stavolta, tocca al cosiddetto Patto di produttività ricevere una sorta di sigillo di necessità.

A pochi giorni dalla sottoscrizione da parte di Cisl, Uil e Ugl delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia” (questo l’altisonante titolo del documento) si diffondono i dati Istat sulla produttività in Italia, che sono effettivamente catastrofici. E la distanza dell’Italia da molti Paesi europei in termini di produttività, giustificherebbe il Patto.
Si legge nel rapporto Istat che “con riferimento al periodo 1992-2011, la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso medio annuo dello 0,9%. Tale incremento è la risultante di una crescita media dell’1,1% del valore aggiunto e dello 0,2% delle ore lavorate. La produttività totale dei fattori è salita dello 0,5%”. Insomma, siamo a livelli di produttività davvero bassi. Ma quello che i sostenitori del Patto dimenticano di dire (guarda il caso) è che per produttività l’Istat intende giustamente “il rapporto tra il valore aggiunto in volume e uno o più dei fattori produttivi impiegati per realizzarlo”. In altri termini, la produttività è la misura di un incremento di valore a fronte di un aumento di uno o più fattori di produzione, sia esso in termini di lavoro o di capitale. Che è cosa ben diversa dal numero di ore lavorate o dalla velocità di produzione. Non è il lavorare più in fretta che permette un incremento del valore aggiunto e quindi della produttività. E nemmeno deriva dal lavorare di più. Tant’è che lo stesso rapporto dell’ente di statistica afferma che mentre nel 2010, a fronte di una contrazione dell’input di lavoro il valore aggiunto è cresciuto del 3,2%; nel 2011, nonostante un aumento delle ore lavorate, il valore aggiunto è cresciuto solo dello 0,7%.

La produttività, intesa come l’Istat, è direttamente legata agli investimenti, specie in ricerca e sviluppo. E com’è messa l’Italia su questo fronte? Molto male. I dati Istat descrivono una produttività del capitale (intesa come rapporto tra il valore aggiunto e l’input di capitale) in costante diminuzione tra il 1992 ed il 2011: in media l’Italia perde in questo senso uno 0,6% annuo. Nello stesso periodo, “l’intensità del capitale, misurata come rapporto tra input di capitale e ore lavorate, è aumentata in media d’anno dell’1,6%”. Nonostante sia riconosciuta la positiva correlazione tra investimenti in ricerca e sviluppo e produttività, l’Italia rimane al palo. Un recente rapporto della Banca d’Italia (“Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi”) segnala che la spesa in Ricerca e Sviluppo in rapporto al PIL è di circa l’1% in Italia, “un valore inferiore alla media della UE (1,8 per cento) e ben distante dalla Germania (2,6 per cento) e dai paesi Scandinavi (Svezia e Finlandia si collocano sul 3,7-3,8 per cento)”. Chiaramente, stante questi dati, il valore aggiunto delle produzioni italiane non possono essere competitive.

Nonostante ciò, con il Patto di competitività si intende, sostanzialmente, concedere un incremento di salariale attraverso una riduzione della tassazione per i redditi fino a 40.000 euro lordi, ma solo a chi, a seguito di contrattazione aziendale, lavora di più e più in fretta.  
E allora la domanda è: perché insistere sull’aumento delle ore di lavoro o sulla velocità dei ritmi di lavoro? La risposta è in quegli stessi dati: il padronato italiano ha rinunciato da molto tempo ad essere competitivo sulla tipologia e sulla qualità del prodotto, e punta tutto sul basso costo del lavoro. In questi termini, la competizione le industrie italiane la fanno con i Paesi meno sviluppati dal punto di vista industriale o emergenti e con maggiore sfruttamento del lavoro. Per stare al passo di quei Paesi, bisogna adeguarsi ai loro standard lavorativi.
Non è un caso che il modello produttivo che Fiat ha imposto ai lavoratori serbi - che ad esempio prevede turni di 10 ore di lavoro, straordinari e riduzione delle pause - fosse già stato previsto per Mirafiori. E non è un caso che il Patto per la produttività sia il naturale prolungamento dello sciagurato accordo del 28 giugno 2011 e dell’articolo 8 della “manovra di Ferragosto”, che deregolamentano i rapporti di lavoro dando all’impresa la possibilità di agire in deroga ai contratti nazionali ed alle leggi.
Il Patto per la produttività segna un altro passo verso la generalizzazione del ricatto di Marchionne. Chi lo firma sostiene quel ricatto, perché ne sostiene l’impianto ideologico e perciò gli interessi di classe padronali.

MARCHIONNE E LA SUA DITTATURA TOTALITARIA E TOTALIZZANTE


Non è solo rappresaglia, la decisione di Fiat di mettere in mobilità 19 lavoratori per far rientrare in fabbrica altrettanti lavoratori iscritti alla Fiom e discriminati dall’azienda al momento di fare le assunzioni per la Newco di Pomigliano d’Arco. C’è di fatto un’ideologia di fondo che scarica ogni problema sui lavoratori e che quindi, considerati strumenti per il profitto, possono essere buttati fuori dal ciclo produttivo quando di quello strumento non c’è più bisogno. È una questione che si evince abbastanza chiaramente dall’ultimo comunicato Fiat.
C'è un crisi di mercato - spiega la Fiat - e perciò l'azienda ha una struttura che "è  sovradimensionata rispetto alla domanda del mercato italiano ed europeo". Pertanto, poiché Fiat "non  può  esimersi  dall’eseguire  quanto  disposto  dall’ordinanza" della Corte d'Appello di Roma "e,  non  essendoci spazi per  l’inserimento  di  ulteriori  lavoratori", sarebbe stata costretta ad avviare "una procedura di mobilità per riduzione di personale". Insomma, c’è una crisi di mercato e la famosa “mano invisibile” prende a schiaffi anche i diritti dei lavoratori.

Secondo questa logica, non è colpa di Fiat se c’è crisi di mercato e perciò, se non ti accontenti di fare un lavoro senza diritti la colpa è tua, lavoratore impenitente iscritto alla Fiom; lavoratore che non ti vuoi rendere conto che meglio un lavoro senza diritti, che stare senza lavoro; che ti ostini a non capire che chi non lavora non mangia. Per questa via, mettere i lavoratori gli uni contro gli altri è un giochetto tanto meschino quanto semplice da mettere in pratica. Facile, soprattutto se hai nella sostanza il favore di chi, a parole, finge una timida difesa dei diritti dei lavoratori.
Pietro Ichino, esponente di quel PD che ha votato, oltre i provvedimenti da macelleria sociale del governo Monti, anche la manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, afferma in sostanza su Il Foglio di oggi (2 novembre), che Fiat sbaglia a discriminare chi è iscritto Fiom. “Ma - precisa subito Ichino -  ha ragione anche Marchionne quando accusa la Fiom di aver fatto la guerra fin dall’inizio”. Secondo il giuslavorista del PD, “logica e buon senso avrebbero imposto che la Fiom rinunciasse alla guerriglia giudiziaria”. Pertanto, stando al senatore del PD, da parte di Fiat “non c’è rappresaglia”, in quanto “questa sentenza non può che essere collocata in un conflitto lungo due anni”, durante i quali Fiat avrebbe tentato la strada di nuove relazioni industriali, che Fiom non ha accettato. Ed ora, secondo Ichino, chiedere a Fiat di rispettare una sentenza che restituisce il diritto al lavoro a degli operai ingiustamente estromessi dalla fabbrica, “non è ragionevole”, in quanto dovrebbe mantenere in organico “persone in eccesso rispetto all’organico di cui ha bisogno” e per di più “in un periodo di crisi”. Torna la logica, anzi l’ideologia, secondo la quale allo sporco lavoro darwinista della “mano invisibile” non ci si oppone.

Un’ideologia contenuta anche nella riforma del mercato del lavoro. Non è stata prestata molta attenzione ad un passaggio della riforma la quale, mentre manomette l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, prevede che il lavoratore indennizzato per essere stato ingiustamente licenziato, potrà essere risarcito di un’indennità decurtata di “quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”.
Per quanto oggi la ministra Fornero finga di esprimersi contro il comportamento Fiat e per quanto si agiti lo stato maggiore del Partito Democratico, l’una ha proposto e l’altro ha votato una riforma del lavoro che va perfettamente nella direzione dell’ideologia che giustifica la rappresaglia Fiat. La parte della riforma citata, non esprime altro che il concetto secondo il quale se non hai un lavoro non è colpa di altri se non tua che non ne hai cercato un lavoro diligentemente. Quindi tanto meno è colpa di un’azienda che ti ha cacciato, seppure ingiustamente. È una logica, neoliberista e accettata da destra fino ad un sedicente centrosinistra, che marginalizza chi non ha un lavoro: perché senza lavoro non si mangia e se non mangi è colpa tua. Ed in tempi di crisi la cui responsabilità è data strumentalmente ad un debito pubblico che pure con le ricette di austerità di Monti si aggrava, se non hai lavoro e percepisci un’indennità sociale rischi pure di essere additato come parassita.

In una società marchiata da questa ideologia, che mette ai margini e fa sentire inutile chi non lavora secondo schemi capitalistici, Marchionne sbatte fuori dal ciclo produttivo 19 persone (mettendole in quelle condizioni di marginalità) e fa sentire in colpa 19 persone che entrano al lavoro. Basta leggere o ascoltare le dichiarazioni di chi sarà reintegrato al lavoro grazie alla sentenza del giudice, che esprimono malessere al “pensiero che qualcuno potrebbe dover lasciare il proprio lavoro” per fare posto a chi ha difeso un diritto suo e di tutti i lavoratori, a causa del ricatto Fiat. In questo modello, che Marchionne applica ferocemente (e di fatto è solo questa ferocia che ogni tanto fa esprimere esponenti politici altrimenti silenti e accomodanti), i lavoratori e le lavoratrici non sono soggetti portatori di dignità. Sono, dentro o fuori la fabbrica, strumenti per il profitto e per la dittatura padronale.
Una dittatura che, appunto, va oltre il lavoro di fabbrica ed è ad un tempo totalitaria e totalizzante.
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