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Articolo 18: altro che accanimento ideologico. Concreto progetto padronale

La modifica dell'articolo 18, che il governo sta cercando di fare con i sindacati "complici" e Confindustria, non è dettata da accanimento ideologico. E' vero che una maggiore facilità di licenziamento non implica maggiori investimenti, come si cerca spesso di far credere. Nessuno spiega la propaganda secondo la quale una maggiore libertà di licenziamento, comporterebbe maggiore occupazione. "Più occupazione per giovani e donne" è la misera motivazione del ministro del Lavoro, Elsa Fornero per giustificare una riforma che se approvata significherà, ancora una volta, far pagare alle lavoratrici ed ai lavoratori il costo della crisi e le politiche imposte dalla troika, BCE, UE e FMI.

Nonostante le oggettive incongruenze tra i presunti effetti positivi della riforma e la realtà (che invece racconta di maggiore precarietà, spostamento della ricchezza dal lavoro ai profitti, ecc.), l'ideologia c'entra davvero poco, con i motivi della riforma e dello smantellamento dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Nelle intenzioni del governo, spalleggiato da Cisl, Uil, Confindustria e da partiti quali PDL, UDC e gran parte del PD, il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato dovrebbe aversi solo in caso di motivi discriminatori e cioè quando un lavoratore venga licenziato per motivi politici, religiosi, razziali, di lingua o di sesso. In caso di licenziamento per motivi disciplinari, un giudice deciderebbe tra il rentegro ed il risarcimento; mentre non ci sarebbe possibilità di reintegro se il licenziamento avesse motivazioni di tipo economico. E' facile ipotizzare che nel momento in cui un'impresa volesse ad esempio sbarazzarsi del fastidio di un lavoratore sindacalizzato, o di una donna incinta o anche di un lavoratore o lavoratrice costretta ad assentarsi dal lavoro per accudire un familiare con gravi patologie, basterà addurre motivazioni economiche per licenziare senza possibilità di reintegro.

Altro che accanimento ideologico: si tratta di un concreto spostamento dei rapporti di forza tra datore di lavoro e lavoratori. La riforma in questi termini dell'articolo 18, soprattutto in un Paese come il nostro che occupa poco invidiabili posizioni di vertice nelle classifiche dei paesi Ocse su basse retribuzioni, facilità di licenziamento, disoccupazione (specie giovanile e delle donne), alta precarietà, bassa spesa per wefare, scarsa capacità del sistema di reimpiegare lavoratori e lavoratrici scartati dal mercato del lavoro; in queste condizioni, si diceva, questa riforma costringerà ancor di più lavoratrici e lavoratori a dover accettare condizioni di lavoro anche più sfavoreli di quelle esistenti. Significherà per molti dover rinunciare a reclamare maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro ed a rivendicare i propri diritti. Significherà, specie per giovani e donne dover accettare anche più bassi livelli di retributivi. Significherà guerra tra poveri, indebolimento delle organizzazioni sindacali, minore forza rivendicativa da parte dei lavoratori. Insomma, se questa riforma trovasse applicazione, significherebbe uno spostamento dei rapporti di forza in direzione padronale, tale da determinare inevitabilmente un generale peggioramento delle condizioni di lavoro e sociali. Nessun astratto acccanimento ideologico, quindi, ma concreto disegno padronale e concreta ripercussione sulla quotidianità e sui progetti di vita di persone in carne ed ossa.

Mi pare più sufficiente per proclamare uno sciopero generale e una mobilitazione dei lavoratori lunga e generalizzata. Prima che sia troppo tardi.



A questo link è possibile firmare la petizione per la difesa e l'stensione dell'articolo 18.

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