Precarietà e austerità: la ricetta in UE che aggrava la crisi e aumenta la povertà



Negli stessi giorni in cui il presidente del Consiglio, Matteo Renzi ha iniziato il suo tour europeo per presentare, cappello in mano, il suo Jobs Act, a Bruxelles si riuniva la Confederazione europea dei sindacati (Ces) che ha lanciato un messaggio inequivocabile: le politiche di austerità portate avanti dai Paesi membri dell’Ue sotto dettatura della Troika stanno aumentando le disuguaglianze sociali. E il fatto che per la prima volta il vertice del Ces ha riunito i leader sindacali di tutti i 28 Paesi membri denota quanto importante sia rispondere a quelle politiche da massacro sociale.
Un dato emerge in maniera lampante e lo fornisce Bernadette Ségol, segretario generale della Ces: “I salari reali sono diminuiti nel corso degli ultimi cinque anni nella maggior parte dei paesi dell'Unione europea”. È evidente, afferma perciò Ségol, che “L'austerità non funziona”.
Invece il neo-presidente del consiglio dei ministri italiano, nella conferenza stampa con Angela Merkel e successivamente nei suoi interventi, ha voluto mettere in chiaro che l’Italia rispetterà i vincoli europei, riferendosi in particolare al 3% del rapporto deficit/Pil. In buona sostanza Matteo Renzi ha rassicurato la Troika e minacciato i cittadini del nostro Paese che sarà rispettato quel programma di austerità che sta producendo il disastro sociale evidenziato dalla Ces. Nel frattempo Renzi ha illustrato alla premier tedesca il suo pacchetto di riforme, primo tra tutti il cosiddetto Jobs Act.
Questo provvedimento, già in vigore, aggrava le condizioni di precarietà lavorativa puntando su due punti essenziali: i contratti a termine, che la riforma Fornero aveva già svincolato dall’indicare la causale del contratto, potranno durare fino a 36 mesi superando così il limite dei 12 mesi ed essere rinnovati per 8 volte (non è un errore: 8 volte!) anziché per un massimo di 2; per i contratti di apprendistato sono stati eliminati l’obbligo di confermare almeno il 50% degli apprendisti prima di formalizzare nuove assunzioni e l’obbligo di non superare il rapporto di 3 apprendisti ogni 2 lavoratori specializzati o qualificati.
Il mantra è chiaramente quello solito: occorre una maggiore flessibilità per consentire alle imprese di rispondere meglio alle fluttuazioni della domanda e perciò essere competitive.
Una condizione, quella cosiddetta flessibile, che in Italia come nel resto d’Europa occorre tradurre con il termine precarietà e che significa, per chiunque si trovi ad affrontarla: bassi salari (già in diminuzione, come evidenziato dalla Ces), scarse coperture sociali ed in sostanza impossibilità a progettare il futuro della propria vita. Una condizione alla quale sempre più lavoratrici e lavoratori si vedono costretti e non basta emigrare per cercare fortuna e migliori condizioni di lavoro e di vita.
Il rapporto Accessor (acronimo di Atypical Contracts and Crossborder European Social Security Obligations and Rigths) presentato dall’Inca Cgil a Londra lo scorso novembre, traccia un quadro sulle nuove forme di contratto atipico che si sono sviluppate in 8 paesi europei: Regno Unito, Germania, Svezia, Spagna, Italia, Belgio, Slovenia e Francia. Il rapporto dell’Inca evidenzia che“già nel 2005 un lavoratore su quattro era impiegato con un contratto di lavoro atipico o molto atipico, o semplicemente senza contratto. E diversi studi, anche della Commissione europea, concordano sul fatto che durante la crisi questa dimensione del lavoro non abbia fatto che aumentare (European Commission, 2013), e che quindi l'occupazione sia complessivamente più precaria oggi che nel 2005 o nel 2007 (Working Lives Research Institute, 2012).” Eurostat conta in 9 milioni i lavoratori e lavoratrici con contratti di durata inferiore a 6 mesi, per la maggior parte giovani.

Eppure sono molti gli economisti che fanno notare come la precarietà non possa affatto mitigare gli effetti della crisi, ma invece li peggiora. Se ormai dovrebbe essere chiaro, dati alla mano, che la precarietà non produce affatto un aumento dell’occupazione, è bene anche notare che provvedimenti che mirano alla cosiddetta flessibilità in uscita non hanno effetti positivi nemmeno sul Pil. Cioè, nemmeno sul denominatore del rapporto deficit/Pil imposto senza alcuna validazione scientifica al 3% e che Matteo Renzi ha precisato di voler rispettare. È evidente, infatti, che la propensione al consumo di un lavoratore precario sia minore rispetto a chi può contare su un lavoro stabile, dal momento che il primo, rispetto al secondo, è frenato dal maggior rischio di rimanere disoccupato da un giorno all’altro. È evidente, pertanto, che nemmeno gli 80 euro al mese possono davvero rilanciare i consumi, com’è nelle intenzioni dichiarate da Renzi e dal ministro del Lavoro, Poletti se, come afferma ad esempio il prof. De Nardis, capo economista di Nomisma, generalmente solo il 50-60% di quei soldi sarà destinato al consumo. E l’effetto sul Pil sarà tanto minore quanto maggiore sarà la copertura della manovra trovata attraverso tagli alla spesa pubblica (già annunciati).
E allora, affinché la crisi non continui ad essere pagata da lavoratrici e lavoratori, la strada da percorrere in Italia e in Europa è assolutamente opposta a quella perseguita dai governi dei Paesi europei, in maniera sostanzialmente indifferente che si tratti di conservatori o socialdemocratici. Occorre cioè rigettare le politiche di austerità e porre le basi per una politica economica alternativa a quella fin qui perseguita e antagonista rispetto ai poteri forti che la perseguono, riportando al centro delle politiche economiche i diritti ed i bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori. Nel percorrere questo sentiero, la sinistra di classe e davvero di alternativa non può però prescindere dall’assumersi il compito di lavorare per ricomporre la classe lavoratrice che il capitale ha frammentato con le sue politiche di austerità e di precarizzazione.


Carmine Tomeo
Resp. regionale Lavoro, Rifondazione Comunista Abruzzo

Mettere in discussione gli accordi padronali: questo il compito immediato del PRC

Lo scorso 8 dicembre, nella sua giornata conclusiva, il congresso nazionale di Rifondazione Comunista ha approvato un ordine del giorno della federazione di Chieti che impegna il partito «ad organizzare momenti di discussione sul tema della democrazia nei luoghi di lavoro e di contrasto agli accordi che limitano i diritti dei lavoratori o li subordinano alla cosiddetta ‘competitività d’impresa’.» l’ordine del giorno chiamava in causa e criticava gli accordi del 28 giugno 2011 (sulle deroghe ai contratti) e del 31 maggio 2013 (su esigibilità dei contratti e rappresentanza sindacale). Tale impegno era (ed è) dettato dal fatto che la democrazia e l’agibilità sindacale sono questioni fondamentali «per la difesa e la tutela dei diritti nei luoghi di lavoro e per agire il conflitto quale terreno indispensabile per le conquiste dei lavoratori.»
A due mesi esatti dalla fine del congresso, quell’ordine del giorno è rimasto praticamente lettera morta. In conseguenza di quanto approvato dal congresso il partito ha prodotto solo un nuovo ordine del giorno, approvato nel CPN del 11 e 12 gennaio, molto più generico, che nella sostanza si limita ad auspicare per il congresso della Cgil «una svolta, che rimetta al centro la costruzione della mobilitazione, del conflitto e di un progetto alternativo alle politiche liberiste, per i diritti sociali e del lavoro». Ci pare un po’ poco. Certamente insufficiente rispetto a quanto si sta muovendo all’interno della Cgil, nonostante era già stata posta la firma della segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso sull’accordo del 10 gennaio 2014 che regola in maniera dettagliata le regole sulla rappresentanza e sull’esigibilità dei contratti. Una firma che pesa come una spada di Damocle sulla testa dei lavoratori che lottano ogni giorno nei luoghi di lavoro e sulle spalle della Fiom per schiacciarla con tutto il peso della “normalizzazione” entro cui la Cgil, da anni, cerca di riportarla.
Da un punto di vista (potremmo dire) tecnico non ci pare ci siano novità sconvolgenti nell’accordo del 10 gennaio rispetto a quanto già era scritto nell’intesa del 31 maggio 2013 su rappresentanza ed esigibilità dei contratti. Solo che ora è tutto più esplicito. Mentre tra le righe dell’accordo del 10 gennaio si legge, sì, un regolamento, ma un regolamento di conti tra Susanna Camusso e Fiom, con la prima che ha sempre mal digerito la conflittualità dei metalmeccanici che non si rassegnano ad un sindacato neocorporativo.
Rifondazione Comunista rimane intanto ferma di fronte a questo scenario, nuovo ma francamente non imprevedibile. E invece dovrebbe o no interessarci il basso livello di partecipazione al congresso della Cgil? Dovrebbe o no interessarci l’accelerazione neocorporativa impressa dalla Camusso al maggior sindacato italiano? Dovrebbe o no interessarci l’esito del congresso? La risposta è scontata: sì, deve interessarci. Ma allora occorre avere chiaro quale ruolo Rifondazione Comunista vuole assumere rispetto al congresso della Cgil che, è scontato dirlo, sta impegnando molte compagne e molti compagni del nostro partito, sia a sostegno del primo che del secondo documento.
Senza entrare nel merito delle proposte congressuali, è necessario però notare che il primo documento sostenuto dalla Camusso, rivendica l’accordo del 31 maggio 2013 come un «accordo positivo, frutto dell’iniziativa di tutta la Cgil», senza critiche quindi. Quell’accordo è stato prodromo di quello oggi contestatissimo del 10 gennaio e sul quale abbiamo avuto (e continuiamo ad avere) posizioni molto deboli. Soprattutto, però, l’accordo del 31 maggio 2013, per stessa ammissione della maggioranza della Cgil (nero su bianco sul primo documento congressuale), non è scindibile dal contestatissimo (anche da Rifondazione comunista) accordo sulle deroghe del 28 giugno 2011. Accordo quest’ultimo che ha aperto la strada al famoso articolo 8 sui quali compagne e compagni di Rifondazione Comunista si sono spesi per raccogliere firme per un referendum abrogativo.
Eppure che l’accordo del 31 maggio 2013 non fosse un avanzamento rispetto a quello del 28 giugno 2011, ma semmai un combinato disposto sfavorevole per i rapporti di forza dei lavoratori rispetto al padronato, qualcuno, anche nel nostro partito lo diceva da tempo (cioè, appunto, dal 31 maggio 2013). Inascoltato. Ecco quindi la valenza dell’ordine del giorno approvato al nostro congresso che abbiamo richiamato all’inizio di questo nostro intervento.
Ma ad oggi non è più giustificabile l’atteggiamento di Rifondazione Comunista che si pone come semplice osservatore rispetto a quanto avviene in Cgil, per una sorta di rispetto dell’indipendenza del sindacato. . Il Partito deve, ora più che mai, affrontare il nodo del rapporto con il sindacato, perché è proprio qui che si gioca la capacità egemonica del Partito di organizzare i lavoratori.
La scelta di non scegliere, già fallimentare in passato, non è più percorribile. Non di fronte allo snaturamento del sindacato confederale nell’attuale fase neocorporativa. Non di fronte ad un congresso della CGIL in cui i lavoratori sono chiamati ad esprimersi su scelte fondamentali che andranno ad incidere profondamente sulle loro vite e sul loro futuro. Non di fronte ad un accordo scellerato, come quello del 10 gennaio che segna uno spartiacque nei rapporti tra il sindacato e i lavoratori che esso dovrebbe rappresentare, ma anche nei rapporti interni alla stessa CGIL, aprendo quelle contraddizioni che, finora, erano rimaste contenute e confinate all’interno del documento di maggioranza, ma che ora, nel quadro di normalizzazione interna portato avanti dalla Camusso, inevitabilmente vengono a galla.
Come dicevamo, in Cgil militano nelle varie federazioni molte compagne e molti compagni. Oggi si danno battaglia nel congresso Cgil, mentre ancora non sono terminati gli strascichi delle difficoltà congressuali che hanno caratterizzato il nostro. Rischiamo di subire in questo modo una lacerazione interna a causa della conflittualità già presente tra le mozioni congressuali della Cgil, ora esacerbate dall’irresponsabile comportamento della Camusso nei riguardi della Fiom, che addirittura, secondo indiscrezioni, minaccia sanzioni nei confronti di Landini.
Occorre perciò che le compagne ed i compagni di Rifondazione Comunista svolgano in Cgil un ruolo propositivo che intervenga sul dibattito congressuale contro la deriva neocorporativa della Camusso.
Nonostante le sollecitazioni, il Partito non ha sviluppato un dibattito interno che entrasse nel merito delle posizioni congressuali. Adesso, nel vivo del congresso, occorre però chiarezza nella critica e nella proposta, a partire dalla messa in discussione degli accordi del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e soprattutto, ad oggi, di quello del 10 gennaio. Esattamente nel rispetto di quanto emerso dal nostro congresso.
All’interno di un quadro che vede i lavoratori oggetto di un attacco costante da parte dei governi neoliberisti, volto a peggiorarne le condizioni materiali, ad eroderne le tutele ed i diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti, ad inibirne gli strumenti di lotta, sacrificando il tutto sull’altare dell’austerità, dobbiamo, dunque, comprendere quale debba essere il ruolo del nostro partito e dei comunisti, partendo dalla necessità di rimettere al centro della nostra analisi e della nostra azione politica la centralità del conflitto tra capitale e lavoro.
Il Partito, da ormai diversi mesi, ha declinato il tema del lavoro nella proposta di iniziativa di legge popolare per un Piano per il lavoro.
Tale proposta, contiene alcuni elementi che possono essere utilizzati dai nostri compagni e dalle nostre compagne per caratterizzare la battaglia congressuale nel sindacato, qualificando il dibattito con alcuni spunti di riflessione che possono intersecarsi con le istanze concrete che emergono dalle assemblee di base. E’ proprio qui che possiamo costruire consenso attorno alle nostre proposte poiché, nonostante la bassa partecipazione e, spesso, la scarsa sindacalizzazione, abbiamo la possibilità di confrontarci direttamente con i lavoratori e con i loro bisogni concreti. E, da lavoratori, a nostra volta, e da comunisti, è ai lavoratori che dobbiamo rivolgerci, senza la mediazione delle burocrazie sindacali, declinando le nostre proposte nei diversi contesti produttivi, nelle diverse categorie, nelle specifiche realtà territoriali ed aziendali, dalle quali emergono istanze e proposte che dobbiamo essere in grado di intercettare ed inserire in un piano complessivo nel nostro agire politico.
Caratterizziamo il dibattito su temi fondamentali, a partire dalla lotta alle politiche di austerità, che sarà il tema portante anche della nostra partecipazione alle elezioni europee. Poniamo con forza il rilancio dell’intervento pubblico in settori strategici come la sanità, oppure la scuola, l’ università e la ricerca, che da anni sono oggetto di un attacco sistematico e che necessitano di un rifinanziamento e di investimenti concreti, invertendo definitivamente la rotta delle politiche dei tagli ai diritti ed ai posti di lavoro, perfettamente rispondenti alle logiche aziendalistiche e privatistiche volute dai governi neoliberisti, con il plauso della Confindustria e della CEI.
Più in generale, rimettiamo al centro il tema della lotta alle privatizzazioni (acqua, rifiuti, servizi sociali, etc), poiché i tentativi in questa direzione, da parte di governo e regioni, sono già in atto, e non possiamo farci cogliere impreparati.
Portiamo proposte concrete, che possano impattare immediatamente sulle esigenze dei lavoratori, come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, o la lotta alle delocalizzazioni produttive, tema più che mai attuale anche all’interno del dibattito congressuale, poiché va a toccare, tra le altre cose, il problema dell’aumento dei livelli di sfruttamento, oltre che quello della logica ricattatoria del baratto tra posto di lavoro e diritti dei lavoratori, come dimostrano, solo per citare alcuni casi emblematici, le vertenze della Fiat e dell’Electrolux.
Da questo punto di vista, come Partito, dovremmo sviluppare proposte che siano in grado di intercettare tutti quei lavoratori che si trovano in una condizione di maggiore ricattabilità ed assoggettamento alle logiche del mercato, impedendone non soltanto la formazione di una coscienza politica, ma addirittura sindacale, ovvero, coloro che rientrano nelle attuali forme di sfruttamento che il capitale impone, dal frammentato e atomizzato mondo del precariato a quello delle partite IVA, fino alle moderne forme di schiavitù costituite dal lavoro nero ed, in particolare, da quello dei lavoratori migranti.
L’impegno del nostro Partito sulle tematiche del lavoro non può essere demandato ad una raccolta firme per un’iniziativa di legge popolare che, soprattutto in una fase di totale svuotamento di poteri delle istituzioni democratiche, viene percepito dal nostro stesso corpo militante come l’ennesimo dispendio di energie senza efficacia pratica, e, nel merito, non scardina la logica capitalistica nè sposta i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Occorre accompagnare la campagna del Piano per il lavoro ad una capillare opera di radicamento nei luoghi di lavoro, da quelli della produzione materiale a quelli della produzione intellettuale, fino ai luoghi dello sfruttamento del lavoro precario, e nelle vertenze, che, devono uscire dal loro isolamento e dall’impotenza cui il capitale cerca di confinarle, dividendo i lavoratori, ma trovare uno sbocco politico. Questo deve essere il compito del nostro Partito.
Se, da un lato, è importante trovare degli strumenti di propaganda efficaci, che consentano al partito di raggiungere i propri soggetti sociali di riferimento, è ancor più importante elaborare proposte in grado di rispondere realmente alle esigenze concrete dei lavoratori, schiacciati dalla crisi e dalle politiche neoliberiste. Ma, soprattutto, è necessario che il Partito recuperi un rapporto organico con la propria classe e che si ponga come obiettivo prioritario il radicamento nei luoghi di lavoro, nei luoghi della produzione materiale ed intellettuale. Ed è proprio da qui, dai processi produttivi e dalla lotta di classe, che dobbiamo ripartire per il rilancio e la ricostruzione del nostro Partito.

Arianna Ussi, Direzione Nazionale PRC – Collettivo Stella Rossa,
Carmine Tomeo, Responsabile lavoro segreteria reg. PRC Abruzzo.

La necessità di difendere la memoria antifascista dal mito delle foibe



Quando si parla e soprattutto quando si partecipa alle commemorazioni della Giornata del Ricordo, il 10 febbraio di ogni anno, si dovrebbe innanzitutto (o quanto meno) tenere presente di cosa si sta celebrando. Ovviamente la propaganda patriottarda e neo-irredentista racconta la storia dell’esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia dalle persecuzioni titine. Ma intanto occorre tenere a mente cosa rappresenta storicamente il 10 febbraio.


La Giornata del Ricordo nasce in sostanziale contrapposizione alla giornata della memoria del 27 gennaio. Non è casuale la vicinanza delle due ricorrenze e abbastanza evidente dovrebbe apparire la contrapposizione. Il 27 gennaio è il giorno in cui l’Armata rossa entra ad Auschwitz, libera il campo di sterminio e mette davanti agli occhi del mondo la barbarie nazista; il 10 febbraio, per contro, è il giorno del 1947 durante il quale venne firmato il trattato di pace di Parigi, a seguito del quale l’Italia sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale nel quale era stata precipitata dal fascismo, dovette cedere alla Jugoslavia vincitrice del conflitto gran parte dei territori dell’Istria che erano stati conquistati dall’Italia nella sua guerra imperialista: la Prima Guerra Mondiale.


È chiaro, quindi, quali riferimenti storici stiano alla base delle celebrazioni della giornata del ricordo: quelli dell’imperialismo italiano, sconfitto con il fascismo nella Seconda Guerra Mondiale. È a questa sconfitta (dell’imperialismo e del fascismo) che i “foibologi” non vogliono rassegnarsi. Non è un caso che fu Roberto Menia il primo firmatario nel 2003 della proposta di Legge per l’istituzione della giornata del ricordo, lo stesso che nel 1992, quand’era segretario della federazione del Msi-Dn di Trieste, insieme a Gianfranco Fini (allora segretario nazionale dello stesso partito), lanciava bottiglie in mare al largo di Istria contente il seguente messaggio: «Istria, Fiume, Dalmazia: Italia!... Un ingiusto confine separa l'Italia dall'Istria,
da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Yugoslavia [Jugoslavia con Y nel testo originale] muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975 oggi non valgono piu'.. E' anche il nostro giuramento: "Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!"». Non è un caso che ancora Gianfranco Fini, mentre ricopriva la carica di presidente della Camera, nel corso della cerimonia di inaugurazione del monumento a Norma Cossetto il 21  febbraio 2009 affermò che «Nostra intenzione è riportare in terra d'Istria non il tricolore di Stato, ma il dialetto, la memoria patria, la cultura, senza  spirito aggressivo (...) ricordando però che l'Istria è terra veneta, romana, dunque italiana.» [1]


Prima ancora di parlare di italiani infoibati ed esiliati in quanto tali dal territorio jugoslavo, occorre quindi tenere bene a mente da dove nasce la Giornata del Ricordo, cioè da un mai sopito spirito nazionalista e revanscista. Basta a tal proposito farsi un giro sul sito dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd), che si definisce come «la maggiore rappresentante sul territorio nazionale degli italiani fuggiti dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia». [2] L’Anvgd, gonfiando come al solito i numeri sul cosiddetto esodo degli italiani e sulla loro morte nelle foibe, considera importante il giorno del ricordo perché «riporta sotto i riflettori quei dolorosi eventi ma nel contempo anche i valori di identità nazionale [e] le parole foibe ed esodo istriano, fiumano e dalmata vengono ravvivate nel loro significato più drammaticamente profondo ma nel contempo in una fiduciosa prospettiva per il futuro». C’è da chiedersi (retoricamente) se la «fiduciosa prospettiva per il futuro» a cui fa riferimento l’Anvgd faccia riferimento all’articolo 2 del proprio statuto con il quale l’associazione si propone di «compiere ogni legittima azione che possa agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria». [3] Se non è irredentismo questo…


E allora è necessario che la Giornata del Ricordo venga sottratta al mito e riconsegnata alla storia. E la storia, ripulita dalle menzogne, dalle falsificazioni e dalle narrazioni ad uso e consumo del neoirredentismo e del neofascismo, dimostra che la minaccia e la teorizzazione dell’infoibamento viene dal nazionalismo italiano in quelle terre fin dall’inizio del secolo scorso [4]. Soprattutto, però, la storia, che non può essere decontestualizzata, dovrebbe ricordare che il fascismo teorizzava il genocidio del popolo slavo, considerato «razza inferiore e barbara come la slava» contro il quale, affermava Mussolini già nel 1920, «non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». E la storia, ripulita dalla falsificazioni neofasciste, dimostra quali politiche di italianizzazione forzata dovettero subire le popolazioni slave soprattutto con l’avvento del fascismo, quali persecuzioni; quali politiche di deportazioni e fucilazioni di massa, distruzioni di interi villaggi in conseguenza dell’occupazione delle terre istriane e dalmate da parte del nazifascismo.


Riportare le foibe fuori dal mito significa affermare che all’indomani dell’8 settembre 1943 e poi dopo la fine della guerra, vi furono certamente, come afferma Claudia Cernigoi «esecuzioni sommarie, vendette personali, e che i corpi degli uccisi furono anche gettati nelle “foibe”. Il fatto è però che i morti non furono migliaia, come la propaganda ha sempre sostenuto, ma tra i trecento ed i quattrocento» [5]; che i cosiddetti infoibati avevano solitamente curriculum di squadristi, aguzzini, torturatori, spie, collaborazioni nazifascisti. [6] Uccisi, in guerra, in una lotta contro il nazifascismo e non contro gli italiani in quanto tali; che non vi fu, quindi, alcun genocidio con migliaia di morti e che non vi fu alcun odio anti-italiano, ma semmai vi fu lotta antifascista nel corso (forse è bene ricordarlo) della Seconda guerra mondiale, il conflitto armato più barbaro che la storia ricordi. Vi fu, cioè, una lotta di Resistenza contro il nazifascismo e la sua barbarie.


Quando questa operazione di smitizzazione viene portata avanti, si dimostra chiaramente che nessuna memoria condivisa è possibile, perché significherebbe infangare la memoria storica antifascista con le falsificazioni e con le teorizzazioni fasciste. Mentre oggi, ancora oggi, a quasi 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla sconfitta del nazifascismo, abbiamo bisogno di affermare chiaramente i valori della Resistenza e dell’antifascismo. Quei valori oggi contenuti nella nostra Costituzione.

Non è un caso che proprio la Costituzione, ultimo baluardo di democrazia istituzionale in Italia, sia messa in discussione con la stessa meschinità, con gli stessi metodi subdoli con i quali viene messa in discussione la memoria antifascista con il mito delle foibe. Se venisse a mancare di senso la memoria storica antifascista, verrebbero a mancare di senso immediatamente anche i principi  costituzionali antifascisti, di democrazia, di pari dignità sociale, di pieno sviluppo della persona umana, di partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese.


Karl Polanyi, antropologo hungerese, affermò che «La soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica. Il sistema economico che era in via di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti ad una rieducazione destinata a snaturare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico.» [7] E' chiaro quindi che la soluzione fascista è un’ipotesi sempre possibile.


Non è un caso che oggi, di fronte ad una memoria storica antifascista compromessa, esattamente in un periodo di «impasse raggiunta dal capitalismo liberale», si tentino riforme in senso antidemocratico, sia in economia che in politica. Esempi molto chiari ne sono la proposta (speriamo senza efficacia) di una legge elettorale (quella proposta da Renzi ed il pregiudicato Berlusconi) in contrasto con la Costituzione [8] e che limita la partecipazione effettiva dei cittadini alla vita politica e rimuove il conflitto di classe per via legislativa. Una legge elettorale che tenta di eliminare la possibilità che il conflitto sociale venga rappresentato in Parlamento come era nelle intenzioni dei costituenti. E non è un caso che Marchionne possa bellamente minacciare di lasciare l’Italia all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale che impone alla Fiat il rispetto del diritto sindacale previsto dalla Costituzione [9]. Non è nemmeno un caso che una banca d’affari come JP Morgan possa permettersi di “suggerire” di rimuovere i principi antifascisti contenuti nella nostra Costituzione [10] per affermare liberamente politiche economiche di austerità che da anni stanno compiendo un vero e proprio massacro sociale.


Ecco quindi l’attualità dell’antifascismo ed al tempo stesso la necessità di non cedere un millimetro di fronte alle spinte bipartisan che vorrebbero imporre un’impossibile memoria condivisa. Nel Giorno del Ricordo, non cedere al revisionismo neofascista e neoirredentista e riportare le foibe fuori dal mito significa appunto questo: difendere la memoria antifascista. Necessaria oggi anche per difenderci dalle politiche antisociali in atto e per lottare contro di esse.

Carmine Tomeo
 

[6] Cfr. CLAUDIA CERNIGOI, Operazione foibe. Tra storia e mito, Udine, Kappa Vu, 2005
[7] KARL POLANYI, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 2010

L'insufficienza è della Camusso non dello sciopero generale



“Non e' più sufficiente evocare lo sciopero generale come unica modalità in cui si determina il conflitto sul tema del lavoro”, ha affermato la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso. In questi termini la Camusso si è espressa nel corso di un seminario sul lavoro, rappresentanza sociale e politica svoltosi a Bologna.

Della insufficienza dello sciopero generale ne aveva coscienza Engels, il quale ironizzava contro chi predicava “dovunque i risultati miracolosi dello sciopero generale”, come se “un bel mattino tutti gli operai di tutti i rami dell'industria di un paese, o meglio, del mondo intero, cessano il lavoro, e in questo modo, al massimo in quattro settimane, costringono le classi possidenti o a sottomettersi umilmente o ad attaccare gli operai”.

Stai a vedere che la Camusso è diventata comunista? Oppure Engels è stato un precursore della deriva compatibilista della Cgil? Ovviamente nessuna delle due cose. 
Engels notava che lo sciopero generale non può essere considerato in maniera immediata e diretta come “la leva per mezzo della quale si compie la rivoluzione sociale”. Lo sciopero generale sarebbe, nelle parole di Engels, una misura “colpisce direttamente soltanto i singoli borghesi ma non il loro rappresentante generale: il potere dello Stato.” Ovviamente i termini dell’insufficienza dello sciopero generale affermati da Engels sono diametralmente opposti a quelli considerati dalla Camusso.

Quest’ultima, infatti, si muove in una logica assolutamente compatibilista rispetto ad uno Stato che va dismettendo ogni forma di tutela sociale, ogni forma di garanzia dell’esercizio dei diritti dei lavoratori, ogni forma di affermazione della legittimità del conflitto. Un processo di dismissione funzionale alla ristrutturazione capitalistica, la cui supposta necessità è propagandata con gli slogan secondo i quali saremmo tutti sulla stessa barca e che, quindi, se questa affonda nessuno si salva. Che ci siano alcuni che da tempo occupano scialuppe di salvataggio, alla Camusso sembra non passi nemmeno per la testa. Come non passa per la testa nemmeno a Bonanni e Angeletti, ovviamente. O comunque si guardano bene dall’affermarlo.

D’altronde il documento congiunto che Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno trasmesso al governo lo scorso luglio, è quanto di più esplicito della deriva neocorporativa assunta anche dalla Cgil a guida Susanna Camusso. In quel documento si rilanciava l’idea di un nuovo patto sociale per la crescita, dentro il quale si auspicava “una grande assunzione di responsabilità da parte di tutti”, indistintamente. Come se i lavoratori non avessero già dato, costretti a cedere diritti e reddito, sotto i colpi di accordi e norme stimolati, auspicati e approvati in nome di quella “grande assunzione di responsabilità da parte di tutti”: con l’accordo del 28 giugno del 2011, con l’articolo 8 della manovra di Ferragosto dello stesso anno, con la riforma del mercato del lavoro e con quella delle pensioni, con l’accordo del 31 maggio troppo frettolosamente considerato come un avanzamento per la democrazia nei luoghi di lavoro.

Non è perciò credibile la preoccupazione della leader della Cgil, che va a congresso con un documento nel quale si rivendica la bontà di quegli accordi. Non è credibile la Camusso quando motiva l’insufficienza dello sciopero generale, con “la difficoltà economica dei lavoratori”, sottolineando la necessità “di identificare l'elemento di unificazione del mondo del lavoro”. Perché le difficoltà economiche sono il frutto marcio delle politiche economiche che la Camusso, come Cisl, Uil e Confindustria, critica solo con riferimento agli indicatori macroeconomici e non per la loro logica classista. Perché la frammentazione del mondo del lavoro non sono frutto della casualità, ma conseguenza di quella precarietà, contro la quale la Camusso non si sogna di alzare barricate, decantata allo stesso tempo come rimedio per la “noia del posto fisso” e necessità per la competitività d’impresa.

La Camusso, nel suo ruolo di segretaria generale, ha finora guidato la Cgil ad assumere un ruolo compatibilista e neocorporativo. L’insufficienza dello sciopero generale di cui parla la segretaria generale della Cgil va letta in questa logica. E proprio contro questa logica occorre affermare la necessità dello sciopero generale.

Catastrofe occupazionale in Abruzzo. Un Piano per il lavoro contro le larghe intese.


Gli ultimi dati Istat mostrano spietatamente le condizioni di sofferenza lavorativa in Abruzzo. Nel terzo trimestre 2013 il numero di disoccupati nella nostra regione è di quasi 64.000. Rispetto allo scorso trimestre l’Abruzzo conta 5.000 disoccupati in più. Ma è il raffronto con lo stesso periodo dello scorso anno a mostrare che l’incremento della disoccupazione regionale è strutturale, con un incremento del numero dei disoccupati che tocca quota 10.000.


Questa volta chissà cosa si inventeranno il presidente Gianni Chiodi o l’assessore Paolo Gatti per sminuire la portata catastrofica di questi dati. Difficilmente si potrà affermare, come fatto in passato, che l’aumento della disoccupazione è dovuta all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. I dati Istat, infatti, mostrano che non solo la disoccupazione è in aumento, ma che è calato drasticamente il numero di occupati sia rispetto al secondo trimestre 2013 (-7.130 occupati), sia soprattutto rispetto ad un anno fa (-31.000 occupati!). Come se non bastasse, in aumento è anche il numero di inattivi, cioè di quelle persone che ormai completamente sfiduciate hanno smesso di cercare lavoro.


Di fronte ad uno scenario di questo tipo risulta ancora più ridicola (per la sua inconsistenza) oltre che pericolosa, la proposta fatta da esponenti del PD locale e nazionale di spalancare la strada agli idrocarburi in Abruzzo. Ma la fotografia dell’occupazione abruzzese dovrebbe far capire che non ci si può limitare, come da troppo tempo fa la Regione Abruzzo, alla distribuzione di finanziamenti per incoraggiare le aziende a nuove assunzioni o per stimolare l’apertura di nuove attività: sono le condizioni strutturali che mancano e su quelle occorre intervenire.


Rifondazione Comunista, proprio per questo motivo, sta avviando la campagna per un “Piano per il Lavoro e l’Economia Ecologicae Solidale”. Tra gli obiettivi del piano per il lavoro, vi sono ad esempio: la destinazione di risorse a ricerca e sviluppo, il sostegno all’agricoltura di qualità e l’incentivazione della filiera corta, la messa in sicurezza del territorio ad esempio rispetto al rischio idrogeologico e sismico, il contrasto alle delocalizzazioni e altri interventi che pongano le condizioni per lo sviluppo di nuova occupazione.


Come è evidente si tratta di un approccio che è molto distante sia dalle recenti espressioni del PD che mira ad intensificazione dello sfruttamento di risorse, sia da quello della Regione a guida centrodestra che si è mostrato palesemente incapace anche solo di arginare la crescente disoccupazione regionale.


Esistono soluzioni che possono rilanciare l’occupazione. Ma per metterle in pratica occorre contrastare la logica delle larghe intese che finora hanno solo reso palesi le affinità elettive del PD e del centrodestra.

Marco Fars, segretario regionale PRC Abruzzo
Carmine Tomeo, responsabile Lavoro PRC Abruzzo

INCENERITORE A CUPELLO. ANGELO POLLUTRI E' PRONTO A SMENTIRE SE STESSO?

 
Alle dichiarazioni di Angelo Pollutri di fare di Cupello una piattaforma per la lavorazione dei rifiuti provenienti dal Centrosud, ci sono state diverse reazioni. Contro la prospettiva annunciata dal sindaco di Cupello sono intervenute con un comunicato congiunto le segretarie del Prc dei circoli di Vasto, Maria Perrone Capano e Cupello, Marilisa Spalatino e l'assessore Prc di Fossacesia, Andrea Natale; Sel, con il segretario provinciale, Alessandro Cianci; associazioni ambientaliste come Nuovo Senso Civico; oltre che il sottoscritto.
Non sorprende registrare che all'appello sia finora mancato un qualche intervento del PD che quantomeno ridimensioni la portata delle dichiarazioni di Pollutri e degli altri esponenti del PD intervenuti al convegno sulla crisi occupazionale in Val Sinello dello scorso 25 ottobre. Insieme a Pollutri, Cesare Damiano e Maria Amato avevano sdoganato anche le attività petrolifere nella nostra regione. Attività contro le quali i cittadini si sono battuti per tutelare un territorio, non accettando di diventare colonia di qualche petroliere.
 
Alle immediate reazioni di quanti alla salute ed all'ambiente tengono davvero, prospettando modelli di sviluppo alternativi a petrolio e monnezza, fa seguito la perentoria risposta a mezzo stampa di Angelo Pollutri. Il sindacao di Cupello afferma di non aver "mai accennato alla costruzione di inceneritori" nel suo intervento e che quindi il suo "pensiero in merito all’argomento si è evoluto al di là delle considerazioni di chi, per un chilo di consenso non perde occasione per dileggiare, usando toni e considerazioni fuori luogo".
Angelo Pollutri è espressione del PD fautore di un'economia da prima rivoluzione industriale basata sullo sfruttamento del petrolio e sui rifiuti, e ora tenta una difesa dopo il suo intervento del 25 ottobre che davvero risulta essere poco credibile.

Se davvero Pollutri ha cambiato idea sull'incenerimento dei rifiuti, se davvero ora, insieme a noi, finalmente la ritiene una pratica inefficiente dal punto di vista economico ed energetico, oltre che assolutamente dannosa per la salute pubblica e per l'ambiente, smentisca se stesso. Smentisca tutte le sue dichiarazioni sul tema e ritiri le delibere comunali con le quali Cupello si candida ad ospitare un inceneritore di rifiuti.
In caso contrario la giustificazione di Pollutri avrebbe il sapore di un troppo consueto atteggiamento pretenzioso e confermerebbe la sua vocazione per il "zozzo è bello".

EMERGENZA LAVORO IN ABRUZZO. LA SOLUZIONE DEL PD: "BRUCIARE MONNEZZA E PETROLIO"



Lo scorso 25 ottobre il PD ha organizzato un convegno sul lavoro con esponenti locali e nazionali. L'incontro si è svolto a Gissi, in Val Sinello, una delle zone abruzzesi più depresse dal punto di vista industriale e occupazionale. Basti pensare che nel giro di circa due anni hanno chiuso la Golden Lady che ha lasciato a casa quasi 400 lavoratrici e lavoratori, il gruppo Val Sinello (che occupava un centinaio di lavoratori), il gruppo canali minaccia il licenziamento di quasi cento dipendenti. Quando si partecipa ai presidi delle lavoratrici e dei lavoratori in lotta, come abbiamo fatto noi del Prc, si respira disperazione e determinazione allo stesso tempo. E per capire quelle sofferenze non basta organizzare un convegno, bisogna passare del tempo con le lavoratrici ed i lavoratori, condividere il freddo di una serata ventosa o un caffè portato in un termos.

Quando si sta da quella parte della barricata, quella occupata dai lavoratori in lotta, capisci che parole come quelle registrate dagliorgani di informazione al convegno, servono a poco, se non a fare una passerella, come giustamente sottolineato dal Prc. Pratica già di per sé fastidiosa, che diventa odiosa quando viene fatta a pochi mesi dalle elezioni regionali.
Nello stesso tempo, però, il PD, dal locale al nazionale, in quel convegno ha mostrato la sua incapacità a rispondere adeguatamente alla crisi economica. Alla domanda di occupazione, il PD, con Cesare Damiano (presidente commissione lavoro alla Camera), la senatrice Maria Amato ed il sindaco di Cupello Angelo Pollutri, risponde parlando di petrolio e monnezza. E se ti opponi a questa logica, guardando a esperienze virtuose che hanno smesso di fare l'apologia del "zozzo è bello", la tua opposizione viene con disprezzo e ironia etichettata come Nimby (come fa il riconfermato segreterario del PD di Vasto, Antonio Del Casale dal suo profilo facebook).
Fortunatamente molta parte della cittadinanza è più lungimirante di chi pensa che il futuro possa essere nello sfruttamento petrolifero, come gli esponenti del PD che sembrano essere stati catapultati nel 2013 direttamente dalla prima rivoluzione industriale.

Un paio di anni fa, in un articolo pubblicato su Liberazione, commentando le tentazioni di installazione di nuove centrali di produzione energetica, facevo notare che “ciò di cui non si tiene conto è che i dati estratti dal Piano energetico della regione Abruzzo (datato 2009) dicono che «l’entrata in produzione dell’impianto» turbogas da 800 Mw di Gissi (Ch), a poche decine di chilometri dalla riserva di Punta Aderci, avrebbe potuto consentire «di passare da una condizione deficitaria di circa il 30% del fabbisogno energetico nella Regione Abruzzo ad una produzione superiore di circa il 30% al fabbisogno regionale.» Quello che manca è invece l’efficienza energetica.
Sempre stando al piano energetico regionale, si nota che in Abruzzo, per produrre un’unità di ricchezza, si utilizza una quantità di energia superiore alla media nazionale. Il che vuol dire che c’è uno spreco di energia che non giustifica la rincorsa ai consumi energetici con autorizzazioni regionali a nuovi impianti di produzione di energia.
Insomma, il rapporto regionale fotografa un Abruzzo che dovrebbe sprecare meno energia. Obiettivo che di certo non si raggiunge aumentando il numero delle centrali termoelettriche sul territorio.
Lavorare al risparmio energetico, invece, significherebbe anche rispondere alla competizione dei mercati, riducendo i costi aziendali per unità di prodotto senza puntare come al solito alla riduzione del costo del lavoro. Potrebbe significare, partendo da studi sui minori consumi energetici, tentare di migliorare la posizione aziendale nel mercato di riferimento, senza per forza percorrere la spirale recessiva che si alimenta della riduzione del personale e minore potere di acquisto per i lavoratori.”

E' evidentemente che punti di vista diversi determinano prospettive diverse ed incompatibili. E la prospettiva di chi continua a sostenere che "bruciare è bello" e che "sfruttare risorse è meglio", ha lo stesso punto di vista di chi con le risorse di un territorio si arricchisce, lasciando dietro inquinamento e impoverimento, cioè la prospettiva che toccherebbe alla nostra regione seguendo la strada indicata dal PD. Esperienze come Viggiano in Basilicata dovrebbero insegnare. Ma per imparare la lezione di Viggiano occorre abbandonare l'ideologia dello sfruttamento dalla quale il PD non vuole liberarsi.

GOLDEN LADY: FURBATE DA TRE SOLDI E FUGA

Si apprende dagli organi di informazione che la New Trade, una delle due società alle quali era stata affidata la riconversione della Golde Lady di Gissi, è finita sotto inchiesta. I proprietari dell’azienda, i fratelli Nicola e Franco Cozzolino sono attualmente indagati dalla Dda di Firenze, perché sarebbero coinvolti in giro di traffico illecito di rifiuti plastici e abiti usati.

L’inchiesta che coinvolge la New Trade a Firenze, colpisce la società dei Cozzolino dopo i fatti accaduti a Gissi che forse è utile ricordare: il sequestro di materiali per inadempienze sempre in materia di rifiuti, le fidejussioni mancanti, la chiusura arbitraria dello stabilimento, il non pagamento delle maestranze, i licenziamenti arbitrati, il mancato rispetto degli accordi di riconversione firmati in sede ministeriale. Un curriculum che non dà alcuna garanzia di affidabilità. E tutto è successo in pochi mesi!

Colpisce come nella riconversione della Golden Lady di Gissi, nella quale è coinvolta anche la Silda che si sta dimostrando inaffidabile in termini di liquidità e perciò di garanzie produttive, l’inaffidabilità delle società coinvolte non sia assolutamente emersa (se non per un attimo e solo per Silda). New Trade e Silda sono state evidentemente segnalate dalla società Wollo, incaricata da Golden Lady per la riconversione dello stabilimento di Gissi. Oggi, ciò che non può continuare a passare sotto traccia, è la responsabilità di una riconversione che non poteva non fallire, viste le premesse.
È chiaro che chi doveva facilitare la riconversione ha fallito clamorosamente nel suo compito; chi aveva il dovere di fare verifiche sull’affidabilità di Silda e New Trade non ha fatto il suo dovere come la situazione imponeva; chi doveva vigilare sul rispetto degli accordi non ha finora mosso un dito. Sarebbe il caso che tutte queste responsabilità (del ministero, della Wollo, della Golden Lady, della Regione, della Silda e della New Trade) venissero accertate una volta per tutte, anche per ripagare i lavoratori del danno subito. E a tal proposito c’è da chiedersi, in merito ai 2,5 milioni di euro che la Silda avrebbe ricevuto da Golden Lady: in che modo è stata eseguita la transazione, come sono stati utilizzati quei soldi ed in che voce di bilancio sono rintracciabili?

Soprattutto, però, è necessario che la riconversione della Golden Lady trovi nuove strade, considerando chiusa la inaudita e drammatica esperienza New Trade-Silda, coinvolgendo la Golden Lady, che rimane tra l’altro la principale responsabile del dramma che stanno attraversando quasi 400 persone in Val Sinello. Perché non dobbiamo dimenticare che Golden Lady non era un’azienda in crisi, ma solo un’azienda assetata di profitti che ha preferito la Serbia a Gissi, perché lì lo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori è più facile.


Marco Fars, segretario regionale PRC Abruzzo
Carmine Tomeo, responsabile Lavoro PRC Abruzzo

Golden Lady: il fallimento di una riconversione pagata con i soldi dei lavoratori




 «Io e mia moglie speravamo almeno nel suo stipendio. E invece…». Così esprime la disillusione per una riconversione fallita dello stabilimento Golden Lady di Gissi (Ch), il marito di una delle lavoratrici in presidio permanente davanti ai cancelli della fabbrica, dove fino a maggio 2012 si producevano le calze Golden Lady. Quel marito è anch’egli in cassa integrazione da molti mesi, e cosa ne sarà della sua azienda, la Sider Vasto, anch’essa fino a pochi giorni fa presidiata dai lavoratori, non lo sa.

Il 25 novembre 2011 la Golden Lady chiude i battenti. I macchinari, usciti senza troppo rumore dallo stabilimento di Gissi, sono stati trasferiti in Serbia. Lì la mano d’opera costa molto meno e lo sfruttamento può essere portato a livelli più alti, senza troppe noie per il patron Golden Lady, Nerino Grassi. La disperazione delle lavoratrici e dei lavoratori è stata per un periodo attenuata, quando a maggio dello scorso anno ci fu la tanto attesa riconversione. Alla Golden Lady, nello stabilimento di Gissi, sono subentrate la Silda Invest S.p.A. e la New Trade S.r.l. La società di Nerino Grassi favorì questa grottesca e finta riconversione, pagando alla Silda 10.800 € per ogni lavoratore assunto (in realtà era l’incentivo all’uscita volontaria che Golden Lady offrì a dipendenti), ed affidando gratuitamente il capannone alla New Trade, per sette anni. Golden Lady ha così sottratto il suo marchio all’infamia di aver lasciato a casa quasi 400 persone. Ma è chiaro che dell’attuale disperata situazione nella quale si trovano i suoi ex dipendenti, la Golden Lady ha la sua parte di responsabilità.

E la situazione attuale è peggiore di quella di un anno e mezzo fa, quando la Golden Lady chiuse definitivamente la fabbrica di Gissi. Allora, nella situazione pure drammatica, c’era il sostegno della cassa integrazione, poi la prospettiva della mobilità, ed anche l’incentivo all’uscita volontaria di 10.800 euro: una miseria guardando al futuro, ma comunque un piccolo polmone per tirare avanti qualche tempo. Oggi, davanti alle lavoratrici ed ai lavoratori Golden Lady (senza ‘ex’, come dicono molte lavoratrici, perché senza riconversione la Golden Lady non può sottrarsi dalle sue responsabilità), si para un futuro nero: lunedì 15 luglio sono stati costretti ad iscriversi alle liste di mobilità, per non perdere anche quest’unico ammortizzatore sociale rimasto nelle loro possibilità.

Ecco quello che rimane di una riconversione mai davvero esistita, ma della quale in troppi si sono riempiti la bocca. Nessuno dimentica, ad esempio, che il PDL affisse manifesti in tutto il territorio, arrogandosi i meriti di posti di lavoro che allora, ai più, sembravano salvi. Si era in odore di campagna elettorale; chissà cosa si inventeranno per le elezioni regionali abruzzesi che si terranno tra qualche mese. Di quella fantomatica riconversione rimane solo la disillusione di quasi 400 lavoratrici e lavoratori, dopo mesi di duro lavoro che, dal racconto di chi era stato momentaneamente ricollocato, era al limite dello sfruttamento. Mesi in fabbrica a ritmi altissimi, spesso senza protezioni e senza stipendio.

In questi mesi, la New Trade ha subito anche il sequestro dei materiali da parte della Guardia Forestale. Non solo: è anche capitato che i dipendenti, pure senza stipendio da mesi, andando al lavoro, si sono anche ritrovati i cancelli chiusi. Intanto la Silda mostrava sempre più la propria fragilità. Raccontano infatti i lavoratori in presidio, che la Silda non solo non ha pagato alcuni stipendi, ma è debitrice anche nei confronti dei fornitori ed oggi ha addirittura alcune utenze staccate dal gestore.

È ovvio chiedersi quali verifiche abbia svolto il ministero dello Sviluppo Economico, quando affidò la riconversione a queste due società. Possibile che non si siano accorti della loro inaffidabilità, ormai palese agli occhi di chiunque? Perché nessuno ha monitorato il rispetto degli accordi di riconversione? E ancora, i soldi che la Silda ha ricevuto da Golden Lady, i 10.800 € che ogni dipendente Golden Lady sacrificò per di fatto comprarsi il nuovo posto di lavoro, che fine hanno fatto? Si tratta di circa 2,5 milioni di euro che nessuno sa dire a quale titolo siano stati offerti alla Silda, in che voce di bilancio sono finiti e come sono stati impiegati.

Risposte che devono essere date a quasi 400 lavoratrici e lavoratori (ex?) Golden Lady, finora presi in giro. Intanto loro, a turno, presidiano lo stabilimento, affinché dalla fabbrica non escano materiali, e soprattutto macchinari. Ora le sorti di chi era stato ricollocato in Silda e di coloro che erano stati reimpiegati in New Trade devono riunirsi. I padroni, dicono alcuni lavoratori, erano riusciti a creare tensioni e divisioni. Ma ora c’è di nuovo tutta l’evidenza di essere sulla stessa barca: se questa affonda, affondano tutti. Perciò occorre remare tutti nella stessa direzione. Insomma, fa notare molto giustamente una lavoratrice, o si lotta uniti tutti insieme o tutti insieme inevitabilmente si perde.

Ma ora la Fiom deve allargare la lotta per la democrazia sindacale





La sentenza della Corta Costituzionale, che sancisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori riapre prepotentemente la questione della rappresentanza sindacale. La Consulta afferma che è illegittimo negare la rappresentanza sindacale aziendale ad “associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”. Ad essere considerati incostituzionali, sono in sostanza il modello Pomigliano e Mirafiori, poi esteso in tutto il gruppo Fiat, che aveva estromesso dalla rappresentanza sindacale la Fiom ed i sindacati di base non firmatari del contratto separato Fiat. In pratica, incostituzionale è quel fascismo di fabbrica imposto da Marchionne e sostenuto da Cisl e Uil (oltre che dal sindacato padronale, Fismic).

Così, la Fiom potrà tornare nelle fabbriche Fiat. Così, anche nelle aziende del gruppo Fiat i lavoratori potranno scegliere liberamente da quale sindacato farsi rappresentare. Perché il giudizio della Consulta sostiene e rafforza il principio costituzionale della rappresentanza unitaria in proporzione agli iscritti, senza altri vincoli. Detta in altri termini, il principio costituzionale dell’agibilità sindacale è garantito anche qualora un sindacato non firmi un contratto collettivo. La libera azione sindacale è un diritto che non può essere subordinato all’accettazione di un accordo. Nei fatti, è la sanzione della contemporanea esigibilità del diritto alla rappresentanza sindacale ed al dissenso, e quindi al conflitto, che non possono essere considerati l’uno alternativo all’altro. E l’importanza di tenere unita la rappresentanza sindacale con il diritto al conflitto, si è mostrato in tutta evidenza con l’assenza formale di Fiom e dei sindacati di base dagli stabilimenti Fiat.

La partita, però, non è per niente terminata: rimane il nodo dell’accordo del 31 maggio 2013 firmato da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil. Un’intesa che richiama nella sostanza gli stessi criteri di rappresentanza dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, che la Consulta ha definito incostituzionali. Nell’euforia della sentenza della Corte Costituzionale, non si può sottacere il fatto che l’accordo del 31 maggio, non solo ammette alla contrattazione collettiva nazionale esclusivamente le Organizzazioni Sindacali firmatarie dello stesso accordo e prevede sanzioni per chi si oppone all’applicazione dei contratti; di più, nelle previsioni dell’intesa, nella elezione della Rsu varranno esclusivamente i voti assoluti espressi per i sindacati firmatari dell’accordo. Insomma, se la sentenza della Consulta riporta la Costituzione nelle fabbriche, come giustamente afferma Landini, il vigente accordo del 31 maggio la Costituzione la risbatte violentemente fuori.

Quell’accordo è stato sostanzialmente accettato dalla Fiom, probabilmente nell’ansia di dover rientrare nelle fabbriche dalle quali era stata estromessa (anche se occorre dire che nell’ambito Fiat quell’accordo non aveva valore, essendo Fiat fuori da Confindustria). Ora la Fiom, che ha condotto questa importante e vittoriosa battaglia legale contro la Fiat, per affermare il sacrosanto diritto all’agibilità sindacale, ha la responsabilità di lottare perché tale diritto non sia umiliato da un accordo pattizio tra padroni e sindacati. Una responsabilità che ovviamente ricade anche sulle forze politiche che oggi esultano alla lettura della sentenza della Corte Costituzionale, in specie a quelle che davvero hanno sostenuto il diritto di libertà sindacale anche per la Fiom.

Non è un caso che, all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale, Fiat fa sapere di rimettere “piena fiducia nel legislatore affinché definisca un criterio di rappresentatività”, capace di dare “certezza di applicazione degli accordi”. Esattamente ciò che, anche per ammissione di Confindustria, si prefigge di fare l’accordo del 31 maggio, la cui parte sulla rappresentanza sindacale è solo funzionale alla esigibilità dei contratti. Non è un caso nemmeno il fatto che, contemporaneamente, il presidente dell'Autorità di garanzia per gli scioperi, Roberto Alesse  affermi la necessità, a suo parere, che i contenuti dell’accordo del 31 maggio “vengano, in qualche modo, blindati per il tramite di un intervento del legislatore da concertare con le Confederazioni firmatarie”.

Insomma, la sentenza della Consulta, mentre riafferma il diritto alla libera azione sindacale, riaccende di fatto l’antagonismo padroni-lavoratori in merito ad una vera democrazia nei luoghi di lavoro. Deve riaprirsi, perciò, il fronte di lotta (in realtà mai chiuso) per una piena e generale agibilità sindacale. Ma questa volta dovrà necessariamente essere ben più ampio di quello finora condotto quasi esclusivamente dal sindacato di base. Se così non sarà, a vincere saranno i padroni, sarà Marchionne; a perdere saremo tutti, Fiom compresa.
Like us on Facebook
Follow us on Twitter
Recommend us on Google Plus
Subscribe me on RSS