Una maglietta fa scandalo. Un morto ammazzato dalla crisi, invece no. E nemmeno un morto sul lavoro, anche nel caso in cui il reato cadesse in prescrizione e si desse seguito ad una sentenza di “non luogo a procedere”.
Qualche giorno fa i giornali
erano pieni di sdegno e polemiche per uno slogan
scritto su una t-shirt indossata da una normalissima signora di mezz'età (per
dire, non una brigatista conclamata). Certo si trattava di una maglietta non
bella, anzi brutta. Quella frase era inopportuna quanto si vuole, ma il grado
di pericolosità (se così si può dire) di quello slogan era insignificante e la
ministra Fornero non corre maggiori rischi di quanti ne corresse prima che
quella maglietta venisse fotografata e diffusa sul web e sulla stampa. Invece,
nei fatti e non nelle idee, al cimitero finiscono persone suicide per la crisi
economica e lavoratrici e lavoratori morti sul lavoro, in una logica condotta
da uno slogan nascosto dalle ipocrisie capitaliste che recita così: “produci
consuma e crepa”.
Oggi si
leggono due notizie che ricordano quello slogan: una 40enne si uccide, dopo
aver denunciato la drammaticità della sua condizione di lavoro; il reato per
una morte sul lavoro cade in prescrizione e non si avrà più giustizia. Non sono
casi eccezionali. Sono la normalità di un'Italia dove sul lavoro si muore in
diverse centinaia ogni anno, al ritmo di 3 persone al giorno e dove centinaia
di disoccupati e lavoratori si uccidono (357 disoccupati e 198 per ragioni economiche, nel solo 2009) a causa della crisi economica ed occupazionale.
Perché il
nostro è un Paese dove trovare un lavoro è difficilissimo, figuriamoci trovarne
uno dignitoso. Dove spesso pur di lavorare si è costretti ad accettare
condizioni illegali, lavoro nero, situazioni pericolose per la propria salute e
finanche per la propria vita. Dove quando capita la fortuna di riuscire a
firmare un contratto, si tratta di uno dei circa quaranta modelli contrattuali
precari, che non consentono di progettare un futuro nemmeno a breve termine. Perché
quel contratto scade dopo tre mesi, un mese o anche il giorno dopo e perché la
retribuzione è così bassa da non poter parlare di stipendio dignitoso.
Si può
definire come si vuole il suicidio di una persona costretta a vivere con l’ansia
dovuta a queste condizioni del mercato del lavoro. Sta di fatto che il rapporto
Eures sul fenomeno del Suicidio in Italia al tempo della crisi conferma “la
centralità del lavoro nella possibilità di costruire e/o di portare avanti un
progetto di vita”, che di certo non può essere perseguita con maggiore
precarietà o facilità di licenziamenti. “Il suicidio per ragioni economiche" –
spiega l’Eures – conferma il legame con la “acquisizione/perdita di identità e
di ruolo sociale definita dal binomio lavoro/autonomia economica.”
Si mettano insieme il caso della
t-shirt con la scritta “Fornero al cimitero” di qualche giorno fa, con la morte
(l’ennesima) di una persona strangolata dalla crisi e con la mancata condanna
dei responsabili di una delle molte centinaia di morti sul lavoro che ogni anno
si contano in Italia. A quel punto davvero ci vuole un bella faccia tosta per
stigmatizzare lo slogan di una maglietta e contemporaneamente continuare ad
accettare politiche del lavoro che, al meglio, non risolvono la precarietà di
vita ed in genere la peggiorano.
Mi vengono in mente le parole di
Vaneigem: “Quelle che devono essere condannate non sono le idee, ma le vie di
fatto. Oggetto d’incriminazione non devono essere i discorsi ignominiosi del
populismo – altrimenti bisognerebbe denunciare anche la loro subdola
infiltrazione e la loro presenza camuffata nelle dischiarazioni demagogiche
della politica clientelare e benpensante -, ma le violenze contro beni e
persone, perpetrate dai fautori della barbarie”. Stabilite voi se i fautori della
barbarie accentuata dalla crisi economica, siano signore con una maglietta o
chi stabilisce che una riforma del lavoro debba prevedere la cancellazione
degli ultimi diritti dei lavoratori.
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