«Vogliamo
conoscere il futuro dell’azienda». Era questo il messaggio che arrivava dal
tetto dello showroom della Sixty di Chieti. Marino D’Andrea e Massimo di
Francesco, due lavoratori dello stabilimento teatino del gruppo che detiene
marchi prestigiosi della moda quali Miss Sixty, Energie, Killah,
Murphy&Nye, RefrigiWear, erano saliti su quel tetto per avere risposte
chiare sul futuro dell’azienda e dei suoi 414 dipendenti. Una forma di protesta
che era partita durante lo sciopero proclamato mercoledì scorso da Femca-Cisl,
Uilta-Uil e Filctem-Cgil, ma dalla quale la Cisl non ha perso tempo a dissociarsi: «Non è
modo di fare», dice un Rsu Femca-Cisl, secondo il quale l’iniziativa avrebbe
dovuto essere concordata. Il protagonismo dei lavoratori, si sa, non è nelle
parole d’ordine della Cisl. Hanno resistito finchè hanno potuto. Poi, sabato
mattina il messaggio: «Scendiamo con l'amarezza di
constatare che questa battaglia l'abbiamo persa. L'abbiamo persa noi e l'hanno
persa tutti i lavoratori che si sono sentiti rappresentati e partecipi a questa
iniziativa. Lavoratori che speravano che con questo atto così forte, e dopo
aver inutilmente percorso per anni la via della trattativa con
l'azienda, si contribuisse a dipanare la nebbia che avvolge il loro futuro e
quello delle loro famiglie.»
Ad
oggi, infatti, nonostante precedenti incontri ministeriali, lavoratori e
sindacati non riescono ad avere alcuna informazione sull’affidabilità
dell’acquirente, la
Crescent HydePark, società di investimento panasiatica che
nel maggio scorso ha rilevato il 100% della Sixty. Né si conosce il suo
piano industriale (se esiste) e niente è dato sapere sulla proposta di
transazione sul debito da circa 300 milioni di euro. E proprio sul debito,
lavoratori e sindacati si chiedono come mai questo fardello sia caricato solo
sullo stabilimento di Chieti. Ma l’azienda non fornisce alcuna risposta. Un
silenzio che si protrae da molti mesi e non fa che aggravare le preoccupazioni
dei lavoratori, ormai esasperati dall’incertezza sul loro futuro, da anni di
cassa integrazione e con la spada di Damocle dei 170 esuberi previsti.
Certo
che la crisi economica avrà avuto il suo peso sulla situazione della Sixty, ma
la contrazione del mercato non esaurisce le cause della attuale condizione
aziendale. Nel 2006 il gruppo ha prodotto e distribuito in tutto il
mondo oltre 20 milioni di capi di abbigliamento, fatturando quasi 700 milioni
di euro. Una cifra confermata anche nel 2008. Ma nel 2010, quando l’azienda ha
rischiato di cadere, le produzioni dello stabilimento di Chieti erano già state
trasferite da qualche mese in Cina ed India dove la mano d’opera costa molto
meno. Sta di fatto che oggi la qualità dei prodotti a marchio Sixty risente
della scelta di produrre a basso costo e certamente non è con quel tipo di
prodotto che si possono avere gli apprezzamenti dei nuovi ricchi dei paesi
emergenti.
Sono
quindi del tutto giustificate le preoccupazioni dei lavoratori dello
stabilimento teatino, visto che le passate dichiarazioni dei vertici Sixty,
che sottolineavano un interesse a riguadagnare i mercati ed in quel senso a
cercare un partner che fosse industriale, sono state smentite dai fatti. Sixty
appartiene oggi alla Crescent HydePark che, come si legge in un provvedimento
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, «è un fondo gestito da
CHPI Management, una società d’investimento con sede legale nelle Isole Cayman,
costituito con lo specifico obiettivo di investire in riconosciuti marchi
europei da introdurre nel mercato asiatico».
Lavoratori
e sindacati chiedono da tempo di capire se esiste davvero la volontà di
mantenere il made in Italy dei marchi Sixty. La risposta a questa domanda è
fondamentale per capire le sorti dello stabilimento teatino. È questa una
preoccupazione che non può essere confinata a Chieti ed al suo territorio
drammaticamente colpito dalla crisi. Il caso Sixty deve essere considerato un
caso nazionale se davvero questo governo
ha intenzione, come affermato dal ministro Passera e dal presidente del consiglio
Monti, di fare del made in Italy il volano del rilancio economico del nostro
paese.
Ora
che Marino e Massimo sono scesi dal tetto, «con l'amarezza e la consapevolezza - affermano gli stessi lavoratori -
che al di là di inconsistenti promesse ed impegni ottenuti dall'intervento di
istituzioni e politici, che in ogni caso ringraziamo, queste nebbie pesano
ancora sul futuro» di tutti i lavoratori Sixty, davanti i cancelli della
fabbrica continua un presidio permanente che va avanti da mesi, affinchè di
made in Italy non rimangano solo gli esuberi. «Siamo stati sconfitti - continuano Marino e Massimo - da un sistema nel quale chi, per difendere i
propri diritti, viene stritolato e schiacciato; viene considerato un pericolo
pubblico da spazzare via». Una considerazione che in questi giorni trova conferme nella lotta dei lavoratori dell’Alcoa.
Rimane in ogni caso un insegnamento dal coraggio di
questi lavoratori: si può alzare il livello della lotta. Anzi, loro dimostrano che
alzare il livello della lotta è necessario, ma che per farlo non si può
prescindere dal protagonismo di lavoratrici e lavoratori.
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