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"Rivoluzione culturale" della decrescita: impossibile progetto politico


Soprattutto in questo periodo di profonda crisi economica e del capitalismo come sistema, si parla insistentemente anche di decrescita, sistema economico anticonsumista ed ecologista di cui Serge Latouche, economista, antropologo e filosofo francese è tra i principali ispiratori.
Secondo lo stesso Latouche, la «via della decrescita è un'apertura, un invito a trovare un altro mondo possibile … è una conversione di se stessi e degli altri». Presupposto indispensabile per percorrere la via della decrescita e perciò di un cambiamento reale è la realizzazione del «programma radicale, sistematico, ambizioso delle "otto R": rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare». Insomma, per il «il cambiamento di rotta oggi necessario» ci vuole,
secondo Latouche e con esso i terici della decrescita, «né più né meno che una rivoluzione culturale». Altrimenti, secondo il filosofo francese, il rischio è che «il progressivo esaurimento delle ultime risorse ci porterà verso una dittatura terribile che deciderà con la forza chi può consumare e chi no».

Si potrebbe obiettare che si tratta non già di un rischio possibile. Non in una prospettiva futura, ma già oggi si decide «con la forza chi può consumare e chi no», visto che il 2% della popolazione mondiale possiede la metà della ricchezza del pianeta, mentre la meta più povera della popolazione di tutto il mondo è costretta a sopravvivere con l’1% della ricchezza. Ma a parte questo, a colpirmi della retorica della decrescita è l’importanza data all’aspetto culturale. Come mettere in pratica quella «rivoluzione culturale» di cui parla Latouche non è per niente chiaro. Nella specificazione che la decrescita sia «una conversione di se stessi e degli altri», ci leggo una esagerata ed irreale fiducia nella possibilità che ognuno, individualmente, rimoduli il proprio pensiero in chiave antisistemica e perciò anticapitalistica.
Marx, ne L’ideologia tedesca, alla convinzione che sia sufficiente dire «ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri … e la realtà ora esistente andrà in pezzi», paragonò un uomo che «si immaginò che gli uomini annegassero nell'acqua soltanto perché ossessionati dal pensiero della gravità. Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un'idea superstiziosa, un'idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare.»

Nella teoria della decrescita elaborata in quei termini, si vede l’aspetto culturale come un fatto a se stante. Ma basterebbe guardarsi attorno per notare infiniti gli esempi che mostrano come il sistema capitalista ed il suo armamentario di strumenti che compongono il neoliberismo, fanno cultura. Il consumismo, di cui l’attuale sistema economico si nutre, è cultura: quella del prodotto acquistato per ciò che rappresenta e non tanto per il suo consumo. Se crisi culturale c’è, essa è crisi di una cultura (ad esempio quella socialdemocratica) che annaspa di fronte ad un'altra cultura: quella del neoliberismo e dell'individualismo in questo caso, che vince perché il modello economico capitalista è quello dominante. Ma se così è (ed io credo lo sia), allora non si può pretendere di cambiare le cose partendo dall'educazione degli individui come fosse un fatto a se stante, né pertanto dall'individuo che elabora il suo pensiero dentro la società in cui vive, che è questa, capitalista e neoliberista.
Date queste basi, non credo si riuscirà mai a fare della decrescita un progetto politico credibile ed efficace in chiave antisistemica rispetto al capitalismo. Non credo nella possibilità di un cambiamento determinata dalla semplice sommatoria di individui che ad un certo punto decidono, dentro il sistema economico attuale, di percorrere la via «dell'autolimitazione» indicata da Latouche. Un cambiamento invece è possibile quando gli individui si fanno soggetto sociale, non come semplice sommatoria ma in quanto portatori di un interesse generale, collettivo. Insomma, quando diventano una classe sociale coscienti di farne parte.

Quella classe sociale troppo spesso vista come un rimasuglio novecentesco e generalmente proprio da chi ha interesse a raccontare la favola della necessità di collaborazione tra sfruttatori e sfruttati. Invece di fatto la classe è socialmente identificabile anche nei rapporti con altri pezzi sociali ed è storicamente determinata, nel senso che non è fissa nel tempo. Quindi, nessun rimasuglio del passato nel parlare di classe, ma lettura delle condizioni esistenti e dei rapporti sociali che si hanno in un dato momento storico. E da questo punto di vista sono convinto che abbandonare questo concetto fa il gioco del neoliberismo e del capitalismo nel momento che questi cercano di convincerci del fatto che saremmo «tutti sulla stessa barca». E di conseguenza, per questo discorso neoliberista e capitalista, è benzina per camminare anche far riferimento all'individuo in luogo della classe. Non a caso la teoria tutta capitalista cosiddetta marginalista, gioca proprio sul ruolo del singolo soggetto e sul suo grado di soddisfazione in quanto individuo consumatore.

Può trovarmi d'accordo quindi la semplificazione che leggo spesso, anche in questi tempi di crisi, della necessità «dell'autolimitazione» senza riferimenti alle classi sociali che saranno costrette a decrescere, indicando la scarsità di risorse in termini assoluti? Ovviamente no, non può trovarmi d’accordo. Perchè la scarsità di risorse è anche ed in principal misura, relativa. Perché se l'enorme ricchezza mondiale detenuta da una piccola percentuale di oligarghi nel mondo venisse redistribuita equamente, ci sarebbero risorse sufficienti ad una vita dignitosa per tutti e forse non staremmo nemmeno a parlare di decrescita. Almeno non in questi termini.

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