Foto tratta da Facebook |
Dico questo pure non accettando
quel tipo di violenza. Cosa avessero in mente quelle 500 persone che hanno
scelto di fare gli scontri, sabato scorso, nemmeno questo so. Ma so bene che
centinaia e centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per
manifestare un dissenso e per andare oltre il rituale e stanco comizio finale.
Sabato scorso le strade e le piazze di Roma avrebbero dovuto essere la sede del
tentativo di elaborare un progetto politico per quanto possibile unitario, per
quanto possibile condiviso. Così non è stato perché l’un per cento dei
manifestanti hanno deciso che la piazza dovesse essere la loro.
Si dirà che alla fine, la
stragrande maggioranza delle persone che hanno manifestato a Roma hanno potuto
continuare il corteo, pure deviato, pure spezzato, pure non con le modalità che
erano previste. Certo, è vero. Mezzo milione di persone ha comunque potuto cantare,
urlare la propria indignazione, manifestare. Ma che senso ha manifestare
un’idea se poi non viene ascoltata? Cosa rimane del diritto di espressione,
di dissenso se poi non si ha modo di farsi ascoltare? Ecco, io credo che sabato
a Roma, 500 persone si sono appropriate della piazza in questo senso: hanno
imposto la loro forma di dissenso. E soprattutto, lo hanno fatto da soli.
Tra i tanti commenti che mi è
capitato di leggere e ascoltare, ci sono anche quelli che più o meno
esplicitamente lasciano intendere una certa stanchezza a manifestare
pacificamente il dissenso. Perché, secondo loro, non serve più a niente. Perché
tanto quelli là, quelli della casta, i padroni, i banchieri, i finanzieri e via
cantando rimarranno al loro posto. Perché per cambiare le cose, le soluzioni
pacifiche non sono più sufficienti.
Non escludo che possa essere così,
ma in questo ragionamento si commette l’errore di fondo di separare lo
strumento del dissenso dai soggetti che dovrebbero praticarlo; i modi
dell’agire da chi dovrebbe agitarsi. Se qua sta l’errore di fondo dell’analisi,
come credo, è del tutto inutile stabilire se una modalità di espressione del
dissenso, o di una lotta politica, sia giusta o sbagliata a prescindere da ogni
altra cosa che non sia l’obiettivo che si vuol raggiungere.
L’aspetto
fondamentale da considerare è che i cambiamenti vanno costruiti, oggi, qua dove
siamo e con la persone che ci sono, con la consapevolezza del contesto in cui sono
calate. Pensare di poter basare la propria azione politica, qualunque essa sia,
considerando i tempi, i luoghi, i modi e le persone per come vorremmo che
fossero, anziché per quello che realmente esiste, è completamente inutile. Anzi
peggio: è uno spreco di energie.
Di
più, è una dispersione di energie. Perché c’è da chiedersi, ad esempio, se a
leggere i giornali ed a parlare con le persone, è cambiato qualcosa rispetto al
giorno prima della manifestazione; se qualcuno più distratto sulle questioni
politiche, ma che ugualmente non ce la fa ad arrivare alla fine del mese, a
studiare, a pagare la mensa all'asilo del figlio, oggi sa cosa contro cosa si è
manifestato il 15 ottobre e quali proposte sono in campo. E c’è da chiedersi se
chi sabato scorso a Roma non c’era, domani ci sarà.
Per
produrre un cambiamento reale, c’è bisogno di una massa che, per dirla con
Gramsci, sia entusiasta nell'agitarsi, organizzata ed intelligente. Non c’era niente di tutto
questo nella forma di lotta di quelle 500 persone che il 15 ottobre a Roma
hanno preferito gli scontri. Quei 500 erano soli. E ricordano, nella loro
lotta solitaria, l’anarchico del racconto di Fernando Pessoa, che valutando
difficile ottenere la libertà dalle costrizioni sociali capitalistiche
attraverso l’agire collettivo, decise di lottare da solo. Quell’anarchico
liberò se solo stesso e solo diventando un banchiere.
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