«La salute non si vende». È uno slogan coniato negli
anni '60, negli ambienti Fiat. Mi è tornato in mente in maniera
prepotente mentre leggevo la commovente e dura lettera di un operaio
della Ferriera di Servola, in provincia di Trieste. Luigi Pastore, 57 anni, da 13 in Ferriera,
scrive a colleghi e sindacati e li saluta «con il pesante fardello che,
rinunciando alla mia privacy, ho pubblicamente dichiarato di portare.
Poche parole di un referto medico: “linfoma maligno”».
La Ferriera, nel recente passato, ha subito il sequestro di alcuni
suoi impianti a causa dell’inquinamento prodotto dalle sue attività e,
solo poco più di un mese fa, si temeva il fermo della produzione in
stile Ilva. Numerose, infatti, continuano ad arrivare le segnalazioni
alla Procura di Trieste, circa un possibile e probabile forte
inquinamento ambientale da parte della Ferriera. E Pastore sollecita i
colleghi a riflettere sulle «condizioni in cui, tra gas e polveri, si garantiscono pane e dignità alla famiglia».
Parole che potrebbero essere un monito anche per la vicenda Ilva. E
l’analogia tra le due acciaierie sembra esprimersi ancora nelle parole
di Pastore, al quale, drammaticamente «sorge anche l’amaro dubbio che
chi poteva farlo non abbia saputo o voluto proteggerti abbastanza nel
tuo lavoro».
Si legge, in alcune frasi della lettera di Pastore, quale patrimonio
sia andato perduto negli anni, in termini sindacali, politici e
soprattutto di consapevolezza operaia sulla questione della tutela della
salute. E quindi la necessità di recuperare le esperienze costruite
dietro lo slogan «la salute non si vende».
Erano gli anni ’60 e c’erano le cosiddette paghe di posto. C’era allora (come ancora oggi troppo spesso) il rischio di ammalarsi e morire per cause di lavoro e la paga di posto, 26 lire l’ora, era il risarcimento che il padrone concedeva perché il lavoratore vendesse la sua pelle in fabbrica. Una storia che durò fino agli anni ’70 (raccontata Gianni Marchetto in una bella intervista sul libro “Officina Italia” di Fabio Sebastiani),
quando i lavoratori, mossi dalla consapevolezza delle rischiose
condizioni di lavoro, misero in «dubbio le paghe di posto proponendo di
chiedere i soldi all’azienda per l’adeguamento dell’ambiente di lavoro».
Perché, appunto, «la salute non si vende».
Oggi, quella consapevolezza sembra essersi sbriciolata.
Quel diritto alla salute rivendicato negli anni '60 e '70, con piena
coscienza delle condizioni di lavoro, è pesantemente compromesso
attraverso l’assurdo spostamento del conflitto, da quello
"capitale-lavoro" a quello "salute-lavoro". Il caso Ilva è quello oggi
più emblematico dello spostamento di paradigma con il quale, nascondendo
il fatto che a decidere cosa, come e quando produrre rimane sempre l'azienda, ci si inventa e si realizza lo scontro tra chi non vuol morire di fame e chi non vuol morire di tumore. Mentre dietro quest'immagine c'è comunque una morte da sfruttamento.
In questo quadro, la manomissione di diritti come quello sull'articolo 18 e la messa a norma dello strapotere padronale in fabbrica attraverso l'articolo 8
della cosiddetta “manovra di Ferragosto”, sono funzionali anche alla
logica espressa dal caso Ilva: consolidare quel modello padronale per
cui anche la salute si può vendere. Sia dentro che fuori lo spazio di una
fabbrica.
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