I LAVORATORI DOVRANNO SACRIFICARE SE STESSI. Pacchetto semplificazioni: sul lavoro si rischierà molto di più.

Il motto “produci consuma crepa” è caratteristico del governo Monti, come lo era di quello Berlusconi. Anche in questo senso la continuità tra i due governi è palese. L’Europa ci chiede di intervenire in materia di lavoro, di cancellare diritti, di aumentare la produttività, di alzare in sostanza il livello di sfruttamento dei lavoratori ed ecco fatto: il governo tira su le maniche e si mette al lavoro per manomettere l’articolo 18, per rendere pressoché inefficace su molti punti lo Statuto dei Lavoratori ed ora, ancora una volta, tenta di porre un freno alle necessità di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Si diceva “ancora una volta”, perché nella sua breve vita questo governo ha già tentato due volte di “semplificare” gli adempimenti a carico delle imprese, in materia di sicurezza sul lavoro, mostrando una sostanziale indifferenza nei riguardi della tutela della salute e dell’incolumità di chi lavora. Già nel decreto semplificazioni dello scorso febbraio, il governo aveva tentato di azzerare i controlli nelle aziende; poi aveva provato a derogare le aziende dall’obbligo di valutare i rischi sul lavoro nei primi due anni di attività. Ma in questo modo i lavoratori sono soggetti a grave rischio.

Il governo quindi torna alla carica, ancora con un pacchetto semplificazioni. Senza entrarvi tecnicamente nel merito (lo ha fatto bene Marco Spezia nel documento che riporto in basso che io, anche da collega, condivido assolutamente in tutte le considerazioni), si deve sottolineare che le semplificazioni proposte prevedono deroghe per adempimenti in carico alle aziende fondamentali per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Tra questi vi è l’obbligo di valutare i rischi aziendali (inderogabile obbligo dei datori di lavoro); quello di documentare la valutazione dei rischi dovuti alle interferenze causate dalla contemporanea presenza di più imprese in uno stesso luogo di lavoro, attraverso il cosiddetto Duvri (si tratta di rischi molto insidiosi, perché non dipendono direttamente dalle attività di ciascuna impresa e quindi meno palesi); fino all’obbligo di formare ed informare i lavoratori. È vero che – bontà loro! – sono escluse dalle “semplificazioni” citate (ma non da altre pure importanti) alcune tipologie di attività molto pericolose (ad esempio quelle a rischio di incidente rilevante o le centrali termoelettriche. Ma ad usufruirne saranno comunque la grande maggioranza delle imprese che impiegano complessivamente milioni di lavoratori, alle quali si vuol concedere la possibilità a fare un po’ come pare loro in materia di sicurezza lavoro. Come a dire che il diritto alla salute ed all’integrità fisica dei lavoratori è in mano alla discrezionalità del datore di lavoro.

L’aspetto che mi pare centrale, in questa situazione, è la volontà del governo Monti di concedere, alle nuove aziende, scandalose proroghe (di due anni!) per valutare i rischi dovuti alle proprie attività. In pratica per due anni i datori di lavoro saranno esentati dal valutare a quali rischi sono sottoposti i lavoratori. In sostanza, con queste "semplificazioni", la tutela della salute e dell'integrità fisica delle persone che lavorano non costituirebbero una priorità imprescindibile da qualunque altro aspetto aziendale.
Ricordo, en passant, che già il ministro Sacconi intervenne in maniera simile, ma in maniera molto più blanda: nelle modifiche del 2009 al TU sulla sicurezza lavoro, infatti, si parlava di concessione di un tempo di 90 giorni per l’elaborazione del documento (cosiddetto DVR) che attesta l’effettuazione della valutazione dei rischi, che invece doveva essere immediata. Nel caso del pacchetto semplificazioni, è esattamente la valutazione dei rischi che viene rimandata di due anni dalla costituzione dell’azienda. È perfino inutile sottolineare che è solo dopo aver valutato a quali rischi i lavoratori sono soggetti svolgendo un’attività, che si possono organizzare correttamente le giuste misure di prevenzione e protezione da quegli stessi rischi. È lapalissiano quindi affermare che per i primi due anni i lavoratori di una nuova impresa potranno essere in balìa dei più svariati pericoli. Ed il nostro è un Paese nel quale in due anni, già senza quelle semplificazioni, muoiono e si ammalano per cause di lavoro diverse migliaia di persone.

La sicurezza sul lavoro, insomma, continua ad essere considerata un costo da abbattere in nome della competitività. Un concetto assunto dal governo Monti in piena continuità con quello Berlusconi, del quale faceva parte tal Giulio Tremonti che definì la sicurezza sul lavoro “un lusso che non ci possiamo permettere”. Il presidente Monti continua a ripetere che per rilanciare l’economia c’è bisogno del sacrificio di tutti. A quanto pare, ai lavoratori si chiede si sacrificare perfino la propria salute e la propria incolumità fisica; di sacrificare sé stessi. È questo non è accettabile.

Questo è un motivo in più per opporsi con forza al governo Monti e a chi lo sostiene.

Carmine Tomeo


PRIMO ESAME CRITICO DELLA BOZZA DI DECRETO SULLA SEMPLIFICAZIONE DELLA LEGISLAZIONE DI TUTELA DI SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO

di Marco Spezia
ingegnere e tecnico della sicurezza
SICUREZZA SUL LAVORO – KNOW YOUR RIGHTS!



RIDUZIONE DELLA FORMAZIONE E DELLA SORVEGLIANZA SANITARIA PER LAVORO “BREVI”


All’articolo 3 del Decreto viene aggiunto il comma 13 bis:

Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il Ministro della salute, sentita la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro e la Conferenza Stato-Regioni, nel rispetto dei livelli generali di tutela di cui alla normativa di salute e sicurezza sul lavoro, sono definite misure di semplificazione degli adempimenti relativi alla informazione, formazione e sorveglianza sanitaria previsti dal presente decreto applicabili alle prestazioni che implichino una permanenza del lavoratore in azienda per un periodo non superiore a cinquanta giornate lavorative nell’anno solare di riferimento”.
In attesa di capire cosa voglia dire “semplificazione degli adempimenti” appare inaccettabile qualunque semplificazione su formazione e sorveglianza sanitaria.
Indipendentemente dalla durata del lavoro la formazione è fondamentale per permettere al lavoratore di conoscere i rischi a cui va incontro e come affrontarli.
Anzi è proprio nei lavori di breve durata, in cui viene a mancare l’esperienza e la conoscenza dell’azienda e dei suoi rischi che la formazione è importantissima.
Nello stesso modo, ridurre (semplificare) la sorveglianza sanitaria, può comportare la mancata consapevolezza del medico competente che il lavoratore venga destinato a una lavorazione pur non essendo idoneo a svolgerla. Non a caso, infatti il primo passo della sorveglianza sanitaria è la visita preventiva di idoneità alla mansione


ELIMINAZIONE DELL’OBBLIGO DI ELABORARE I DATI AGGREGATI SANITARI E DI RISCHIO DEI LAVORATORI SOTTOPOSTI  SORVEGLIANZA SANITARIA

Abrogando i commi 1 e 2 dell’ articolo 40 e l’Allegato IIIB e modificando il comma 2bis dell’articolo 40, viene eliminato del tutto l’ obbligo per il medico competente di qualunque azienda di elaborare e trasmette all’autorità competente le informazioni relative ai dati relativi ai rischi cui sono esposti i lavoratori, gli infortuni denunciati, le malattie professionali segnalate, la tipologia dei giudizi di idoneità.
Viene quindi a mancare così del tutto sia un controllo sui fenomeni infortunistici e da malattie professionali delle aziende, sia la possibilità di elaborare statistiche nazionali sulla correlazione tra rischio aziendali e infortuni / malattie.


ELIMINAZIONE DEL DUVRI

Il comma 3 dell’articolo 26 del Decreto viene stravolto e diventa:
Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze o individuando un proprio incaricato, in possesso di adeguata formazione, esperienza e competenza, per sovrintendere a tale cooperazione e coordinamento
Questo comporta di fatto l’eliminazione del DUVRI (Documento Unico di Valutazione del Rischi di Interferenze) per i lavori in appalto, consentendo al datore di lavoro, in alternativa alla compilazione del documento, la nomina di un incaricato.
Viene quindi cancellato il documento che dovrebbe consentire di analizzare i rischi di interferenze tra diverse ditte e definire in concreto le misure di prevenzione e protezione da adottare, sostituendolo con una figure di un coordinatore a cui addossare ogni responsabilità in caso di incidenti.
Non solo, viene modificato anche il comma 3bis dell’articolo 26 che permette di non elaborare il DUVRI e nemmeno di nominare il coordinatore, “nei casi in cui i documenti di valutazione dei rischi del datore di lavoro committente e dell’impresa appaltatrice considerano tutti i rischi dovuti a eventuali interferenze”. Quindi per i datori di lavoro committente e appaltatore basterà scrivere sul proprio documento (grazie anche alla semplificazione di quest’ultimo, si veda dopo) di avere valutato tutti i rischi da interferenze (cosa impossibile visto l’enorme variabilità dei possibili lavori appaltabili) per eliminare del tutto ogni controllo (tramite DUVRI o tramite coordinatore) dei rischi di interferenze.
La conseguenza di queste modifiche è particolarmente grave in una realtà lavorativa come quella italiana in cui praticamente tutte le attività lavorative prevedono miriadi di appalti e subappaltai con la presenza contemporanea di decine di ditte nei medesimi luoghi di lavoro. L’eliminazione del DUVRI cancellerà ogni possibilità di controllo sulle interferenze pericolose e quindi non potrà che aumentare il numero di infortuni.


ELIMINAZIONE DEL DUVRI E DEL COORDINAMENTO PER “LAVORI BREVI”

Con ulteriore modifica del comma 3-bis dell’articolo 40 del Decreto, Il limite temporale per il quale decade l’obbligo di compilazione del DUVRI (o grazie alle modifiche sopra richiamate, della nomina del coordinatore), viene innalzato a dieci uomini-giorno, eliminando così per una enorme mole di attività in appalto ogni controllo sul coordinamento tra le ditte.


ELIMINAZIONE DEL DOCUMENTO DI VALUTAZIONE DEL RISCHIO PER PICCOLE AZIENDE O PER AZIENEDE A BASSO RISCHIO

Vengono aggiunti 4 commi all’articolo 29 del Decreto, che consentiranno di autocertificare (cioè di fatto di non eseguire) la valutazione del rischio ad aziende a “basso rischio” (non ancora definite), alle aziende sotto i 10 lavoratori, ma anche a quelle sotto i 50 lavoratori che nei due anni precedenti non abbiano avuto infortuni o malattie professionali.
Giova ricordare che il documento di valutazione del rischio, non è una semplice elencazione del tipo e del livello dei rischi presenti, ma è soprattutto il documento in cui si definiscono le misure tecniche e organizzative di prevenzione e protezione e le figure aziendali che ne sono responsabili.
In attesa di capire cosa si intenderà per aziende a “basso rischio”, va osservato che qualunque azienda comporta dei rischi. Anche il semplice lavoro d’ufficio può comportare rischi per la salute (stress, fattori posturali, ecc.) e per la sicurezza (rischi da impianti elettrici, rischi in caso di emergenza tipo terremoto).
Inoltre permettere alle aziende di non elaborare il documento di valutazione dei rischi solo in base al numero di dipendenti è assurdo, in quanto la valutazione è tanto più necessaria non in funzione del numero di lavoratori, ma in funzione del livello e del tipo di rischio.
Inoltre permettere lo sconto di non redigere il documento per aziende che non hanno avuto infortuni o malattie professionali è contrario a ogni principio di prevenzione. Valutare i rischi e definire le misure di prevenzione e protezione serve a ridurre in origine la probabilità di infortunio. Non è possibile aspettare il morto per imporre al datore di lavoro la valutazione del rischio!
Queste modifiche sono ancora più gravi tenendo conto della struttura produttiva italiana che è basata, nella stragrande maggioranza dei casi da piccole imprese, sotto i 10 dipendenti. Quelle poi sotto i 50 sono un numero ancora più elevato.


SNATURAMENTO DEL PIANI OPERATIVO DI SICUREZZA E DEI PIANO DI SICUREZZA E COORDINAMENTO PER I CANTIERI

Viene aggiunto un articolo 104-bis, relativo alla gestione del cantieri temporanei e mobili, permettendo anche in questo caso la semplificazione (cioè lo snaturamento) dei due documenti cardine per la gestione della sicurezza nei cantieri edili: il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) e il Piano Operativo di Sicurezza (POS.
Il PSC è il documento redatto dal committente che deve specificare in maniera dettagliata i rischi esistenti nei cantieri derivanti da interferenze tra le ditte presenti e definire le misure tecniche e organizzative per eliminare o ridurre i rischi derivanti da tali interferenze.
Il POS è invece il documento che tutte le ditte appaltate e subappaltate devono redigere per ogni cantiere, recependo i contenuti del PSC, per definire le misure di prevenzione e protezione delle singole ditte.
Semplificare tali documenti significa aumentare la superficialità della loro redazione, rendendoli di fatto solo documenti formali e non sostanziali, e aumentando così il rischio di infortuni in un settore, quello delle costruzioni, che conta oggi la maggioranza degli infortuni mortali o invalidanti.


ELIMINAZIONE DEGLI OBBLIGHI RELATIVI AI CANTIERI PER I “PICCOLI” SCAVI

Tra le attività per le quali l’attuale articolo 88 del decreto permette di non applicare le modalità di gestione dei cantieri temporanei e mobili definiti dal Titolo IV del Decreto, viene aggiunta anche  quella di “piccoli scavi senza costruzione, finalizzati alla creazione delle infrastrutture per servizi”.
A parte sapere cosa si intende per “piccoli” permettere di non adottare le misure di tutela dei cantieri per i piccoli scavi, comporterà l’aumento del rischio per un’attività (quella di scavo) che già oggi comporta un elevato numero di incidenti.


ELIMINAZIONE DELL’OBBLIGO DI COMUNICAZIONE DEGLI INFORTUNI ALLE AUTORITA’ DI PUBBLICA SICUREZZA

Viene abrogato l’articolo 54 del D.P.R.1124/65 che stabiliva che:
Il datore di lavoro [...] deve, nel termine di due giorni, dare notizia all'autorità locale di pubblica sicurezza di ogni infortunio sul lavoro che abbia per conseguenza la morte o l'inabilità al lavoro per più di tre giorni”.
Praticamente gli infortuni potranno essere comunicati solo all’INAIL. In tal modo le autorità di pubblica sicurezza rimarranno all’oscuro del fenomeno infortunistico, cioè di un avvenuto reato di lesioni od omicidio colposi.


ELIMINAZIONE DELLE COMPETENZE DELLE AUTORITA’ DI PUBBLICA SICUREZZA E DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA IN CASO DI INFORTUNI

Viene abrogato il primo comma dell’articolo 56 del D.P.R.1124/65 che stabiliva che:
L'autorità di pubblica sicurezza appena ricevuta la denuncia di cui all'articolo 54, deve rimettere, per ogni caso denunciato di infortunio, in conseguenza del quale un prestatore d'opera sia deceduto od abbia sofferto lesioni tali da doversene prevedere la morte od un'inabilità superiore ai trenta giorni e si tratti di lavoro soggetto all'obbligo dell'assicurazione, un esemplare della denuncia al Pretore nella cui circoscrizione è avvenuto l'infortunio”.
Vengono inoltre modificati i comma successivi del medesimo articolo togliendo alla Procura della Repubblica l’obbligo di avviare un’indagine sulle cause dell’infortunio, demandando l’obbligo alla Direzione del Lavoro.
Vengono così cancellate del tutto le competenze delle autorità di pubblica sicurezza e della Procura riducendo in maniera inaccettabile le garanzie di procedimenti penali e civili a carico dei responsabili dell’infortunio.


ELIMINAZIONE DELLA POSSIBILITA’ DA PARTE DELL’ORGANO DI VIGILANZA DI RICHIEDERE PRESCRIZIONI PER NUOVI LUOGHI DI LAVORO O DI RISTRUTTURAZIONE DI QUELLI ESISTENTI

L’articolo 67 del Decreto relativo all’obbligo di notifica all’organo di vigilanza della costruzione di nuovi edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, oppure degli ampliamenti e delle ristrutturazioni di quelli esistenti viene completamente modificato nell’aspetto procedurale.
Nel nuovo testo viene abrogato il seguente periodo:
Entro trenta giorni dalla data di notifica, l'organo di vigilanza territorialmente competente può chiedere ulteriori dati e prescrivere modificazioni in relazione ai dati notificati”.
Quindi la comunicazione non serve praticamente più a niente, non avendo più l’organo di vigilanza la competenza di richiedere modifiche in caso di non ottemperanza delle norme relative alla caratteristiche dei luoghi di lavoro.


DERESPONSABILIZZAZIONE DELL’OBBLIGO DI NOTIFICA

Tutte le seguenti notifiche all’organo di vigilanza attualmente a totale carico del committente dei lavori o del datore di lavoro e il cui mancato adempimento costituisce reato penale:
notifica preliminare prima dell’inizio dei lavori nei cantieri edili (articolo 99 comma del decreto)
superamento dei limiti di esposizione per gli agenti chimici pericolosi (articolo 225, comma 8 del Decreto);
eventi imprevedibili di esposizione ad agenti cancerogeni e misure adottate per ridurre le conseguenze (articolo 240, comma 3 del Decreto);
notifica preliminare prima dell’inizio dei lavori di rimozione o demolizione di materiali contenente amianto (articolo 250, comma 1 del Decreto);
dispersione nell’ambiente di agenti biologici pericolosi e misure adottate per ridurre le conseguenze (articolo 277, comma 2 del Decreto)
potranno anziché dal datore di lavoro essere effettuate “in via telematica, anche per mezzo degli organismi paritetici o delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro”.
Non è chiaro cosa succederà in caso di omessa notifica, la cui responsabilità dovrebbe rimanere a carico del datore di lavoro.
Sicuramente questa modifica permetterà uno “scaricabarile” di responsabilità con il conseguente allungamento dei procedimenti penali, fino alla prescrizione del reato stesso.

Ecco perchè Marchionne ha mostrato scarsa lungimiranza e capacità di stare sul mercato. Licenziate Marchionne!

da affaritaliani.it
Rispondendo ad una intervista di Ezio Mauro per Repubblica, Marchionne cala definitivamente il sipario sul teatrino Fabbrica Italia. Che questo fosse una rappresentazione nella quale si scimmiottavano veri piani industriali era evidente. Si parlava (ché di documenti non ce n’è mai stata nemmeno l’ombra) di più che raddoppiare la produzione, portandola a 1.400.000 unità entro il 2014. Allo scopo sarebbero stati investiti qualcosa come 20 miliardi di euro.

Ora Marchionne dice senza mezzi termini che quel piano non è più sostenibile. L’Ad Fiat dichiara a Repubblica che non se la sente «di investire in un mercato tramortito dalla crisi». Le auto non si vendono perché, dice Marchionne, improvvisamente folgorato sulla via che conduce al baratro, «la gente non ha più potere d'acquisto, magari ha perso il lavoro, i risparmi se ne sono andati, non ha prospettive per il futuro. Ci rendiamo conto?». (Nota retorica, ma necessaria: i lavoratori di Termini Imerese, quelli dell’Iribus, quelli di Pomigliano e migliaia e migliaia di altri lavoratori se ne sono resi conto da molto tempo. Diamo il benvenuto nella realtà a Sergio Marchionne). Non se n’era accorto, l’Ad Fiat, che quando annunciò il piano Fabbrica Italia la crisi era scoppiata già da un paio d’anni ed era stata da tempo definita come la peggiore dal 1929? Certo, ma il manager italo-canadese, nel lanciare il piano Fabbrica Italia, aveva puntato «su un mercato che reggeva». Diciamo che Marchionne non può vantare doti di lungimiranza. E quei 20 miliardi di investimenti, che non aveva, disse in un’intervista a Report del marzo 2011 ricordata da Francesco Paternò su Il Manifesto, li avrebbe dovuti fare «vendendo macchine». Un qualsiasi foglio di calcolo darebbe un errore di “riferimento circolare”; per Marchionne pare fosse una strategia di mercato.

Viste le virtù manageriali dell’Ad Fiat, non ci si poteva che aspettare la seguente risposta, all’osservazione che «altri produttori europei continuano a sfornare modelli», nonostante operino nello stesso mercato Fiat: «Con un modello nuovo, nelle condizioni di oggi, magari avrei venduto trentamila macchine di più, glielo concedo. Ma magari, mi conceda lei, avrei perso due miliardi di più». Questa a Marchionne la concediamo, ma solo in parte e vediamo perché.
Intanto è bene osservare che i produttori di auto che detengono le maggiori quote di mercato europeo, sono anche le case automobilistiche che hanno lanciato sul mercato nuovi modelli. Tanto per fare qualche esempio solo per il 2012: il gruppo Volkswagen (cui fanno parte Audi, Seat ed altri marchi), che detiene il 24% delle quote di mercato europeo dell’auto, ha sfornato solo con il marchio Volkswagen ben sette nuovi modelli; il gruppo PSA (Peugeot, Citroen) ha lanciato otto nuovi modelli e due restyling e detiene il 12% del mercato europeo; Opel si accaparra l’8,3% della torta ed ha progettato sei nuovi modelli. Fiat, che di quote di mercato continua a perderne in maniera drammatica, ha lanciato la 500L ed il restyling della Panda. Una vera e propria rinuncia a stare sul mercato.

Dicevamo, possiamo concedere a Marchionne la considerazione dal lancio di nuovi modelli Fiat avrebbe perso molti soldi, pure se avesse venduto migliaia di auto in più. Ma anche in questo caso il manager Fiat non è privo di responsabilità. Un rapporto firmato dagli analisti di Morgan Stanley diffuso qualche settimana fa, considerava Volkswagen un'eccezionale opportunità di investimento a lungo termine; Fiat risultava essere la società automobilistica peggio piazzata. Il motivo della pessima affidabilità di Fiat, secondo gli analisti, sarebbe dovuta a posizioni finanziarie non eccellenti ed alla scarsa varietà di modelli. Non basta, Fiat, insieme a PSA, detiene il record negativo del rapporto prezzo/utili. Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato anche in una ricerca del Center of Automotive Research (Car) dell'Università di Duisburg-Essen. Segnalata in un articolo della fine di agosto dell’agenzia di stampa Reuters, la ricerca mostra che per ogni veicolo venduto Fiat perde 142 euro. Allo stesso tempo Volkswagen guadagna 916 euro ogni auto che vende ed il gruppo fa meglio con il marchio Audi, con il quale guadagna ben 4.242 euro a vettura venduta.

Se questa è la condizione è chiaro che l’operaio che sta alle presse o alla lastratura c’entra davvero niente con la crisi Fiat. La politica di Marchionne, sostenuta nei fatti dal governo Monti, volta a padroneggiare in fabbrica per abbassare il costo del lavoro, intensificando allo stremo delle forze operaie i ritmi di produzione e puntando di fatto alla riduzione dei salari, non solo è inutile ma risulta controproducente. Attraverso quella strada si può contare di produrre auto a basso costo e perciò basso valore aggiunto, mettendosi in concorrenza con le produzioni dei mercati emergenti. Ma si tratta, nei fatti, di un vero e proprio suicidio, dal momento che, come abbiamo visto, si tratta di una produzione in perdita e comunque che non dà abbastanza utili per competere sul mercato dell'auto.

Insomma, a guardare i risultati parrebbe che l’investimento prioritario di Fiat dovrebbe essere il licenziamento per giusta causa di Sergio Marchionne.

Marchionne il "capitalista organico" ed i suoi funzionari



Con l’annunciata fine del piano Fabbrica Italia, la Fiat a guida Marchionne sta realizzando un disegno di egemonia capitalistica. Marchionne, infatti, non è semplicemente un amministratore delegato di un gruppo industriale; né è solo un uomo di finanza. Marchionne mi pare possa essere considerato un “capitalista organico”. Non semplicemente perché ha praticamente riunito in sé le due figure di capitalista di produzione e finanziario, ma proprio perché, per dirla con Gramsci, è riuscito a stringere una «connessione con il gruppo sociale cui [fa] riferimento». Il modo in cui il governo sta affrontando il problema tragico dello smantellamento della produzione italiana, richiama palesemente quella connessione. La ministra Fornero, proprio come affermò Monti qualche tempo fa, spiega che «il governo non può imporre le sue scelte a un'impresa privata» e si limita perciò a chiedere spiegazioni all’Ad Fiat. Una richiesta di facciata che è una presa per i fondelli per i lavoratori.

Marchionne, in questi anni, ha operato in modo da ottenere un consenso intorno alla sua strategia. Ha ottenuto finora quello che Gramsci considerava le condizioni per la «egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante 2) dell'apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono».
 Al fondo - lo spiega molto bene Paolo Ciofi - il principio ispiratore del piano Fabbrica Italia non era il rilancio della produzione, ma era quello di stabilire un «potere assoluto del capitale in fabbrica» per «rassicurare i mercati e a far lievitare il titolo in Borsa», così da «rastrellare i mezzi necessari ad assumere il controllo della Chrysler, come puntualmente si è verificato». Attorno a questa necessità di potere assoluto, Marchionne ha costruito un consenso, sia tra il suo gruppo sociale di riferimento e sia, soprattutto attraverso i sindacati compiacenti, nei lavoratori che venivano aizzati tra loro.

Già nel luglio scorso Marchionne affermava di essere motivato a «fare uscire l’Italia da questo buco nero», ma che per farlo aveva bisogno di «lavorare in pace», come avviene – a suo dire – in tutto il mondo tranne che in Italia a causa di relazioni sindacali da guerra ideologica. Si tratta di una delle questioni per cui Fiat sarebbe andata a produrre la nuova 500L in Serbia. Sappiamo benissimo che queste motivazioni sono state assunte anche dai sindacati ormai da tempo scandalosamente "ingialliti". E quelle stesse motivazioni sono state assunte da quegli stessi sindacati per provare compattare i loro iscritti (tentativo fortunatamente non sempre riuscito), attraverso la paura della delocalizzazione, contro i sindacati più combattivi come la Fiom e per far loro accettare quelle riduzioni delle tutele sindacali e quel maggior grado di sfruttamento in fabbrica, precondizioni per l’attuazione di quel, a dire poco fumoso, piano Fabbrica Italia.

Quel piano non si è mai concretizzato sul lato degli investimenti annunciati in pompa magna. Invece, sul lato dell’affermazione del potere padronale in fabbrica, Fabbrica Italia trovava una prima applicazione nell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, firmato anche da quella Cgil che da anni annuncia scioperi generali senza proclamarli, e che prevede la possibilità di accordi in deroga al contratto nazionale ogni qualvolta sia richiesto da «esigenze degli specifici contesti produttivi». Non è un caso che Emma Marcegaglia, allora presidente di Confindustria, solo una settimana prima la firma dell’accordo, affermava che quello sarebbe stata «una risposta alle esigenze corrette che la Fiat manifesta». Di lì a qualche a mese il governo Berlusconi approva la cosiddetta “manovra di Ferragosto” che contiene, all’articolo 8, lo smantellamento di qualsiasi forma di tutela per i lavoratori. Con la manomissione dell’articolo 18, è stato quindi messo il suggello alla «egemonia sociale e del governo politico» portata avanti da Marchionne, quale testa d’ariete di un capitalismo che non ha smesso di fare la lotta di classe.

La rinuncia al piano Fabbrica Italia (la credibilità del quale poteva essere accettata solo da organizzazioni ed esponenti sindacali e politici funzionali alla strategia in stile Marchionne) e la disinvoltura con il quale è stata annunciata, è l’affermazione più evidente del potere del capitale in fabbrica e della egemonia sociale e politica. Opporsi a quel potere e a quell’egemonia spetta al protagonismo del lavoratori. Ed in questo senso, i referendum per il ripristino dell’articolo 18 e la cancellazione dell’articolo 8 assumono un’importanza fondamentale per recuperare terreno sui rapporti di forza tra capitale e lavoro. E guarda caso, ad opporsi o a muovere strumentali perplessità sui quei quesiti referendari, sono quegli stessi soggetti che hanno permesso in qualche modo che si realizzassero le ragioni latenti del piano Fabbrica Italia.

Sostengo i referendum per l'art.18, perchè non mi rassegno ad una vita di ricatti





Dopo le affermazioni dell'Onorevoli Bindi di questa mattina [11/09/2012] i lavoratori si sono impegnati a scriverle. Riceviamo e pubblichiamo una lettera di Carmine Tomeo, lavoratore che non si rassegna a una vita di ricatti.


Onorevole Bindi,
non è certamente un segnale di maturità politica, né di onestà intellettuale far poggiare un pensiero su una sorta di "ragion di partito". Affermare, come lei ha fatto, che non firmerebbe i quesiti referendari «sulla riforma del lavoro perchè questa riforma che parte dall'articolo 18 è frutto di una sintesi a cui abbiamo contribuito anche noi come Pd in maniera determinante» mi pare quantomeno puerile.
Mi aspetterei, da un partito che si richiama costantemente a responsabilità di governo, una maggiore capacità di interpretazione delle esigenze dei cittadini. Ed oggi, l'esigenza dei lavoratori e delle imprese non è certo una maggiore flessibilità in uscita dal mondo del lavoro (mi perdoni l'eufemismo con il quale ho indicato la condizione di avvilente precarietà di milioni di lavoratori). Mi chiedo pertanto in rappresentanza di chi o cosa il PD si candidi a governare.
Per parte mia ed in quanto lavoratore, sosterrò i quesiti referendari per cancellare l'articolo 8 della "manovra di Ferragosto" e per ristabilire l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Anche perchè, a differenza di quanto lei sostiene, ritengo che le riforme debbano servire a migliorare le condizioni di vita dei cittadini anche attraverso l'estensione dei diritti e non ad allargare le possibilità di ricatto sulle parti più deboli, come invece sta già avvenendo a causa della riforma del mercato del lavoro.
Considerando che attraverso l'abolizione di fatto dell'articolo 18 e l'introduzione dell'articolo 8, con un colpo di mano si sono cancellati fondamentali diritti che avevano fatto progredire la civiltà del lavoro, quella approvata anche dal PD deve chiamarsi controriforma. Una battaglia contro di essa è perciò un dovere di chiunque non confonda strumentalmente diritti e privilegi.
Cordiali saluti da un lavoratore che non si rassegna ad una vita di ricatti.

Carmine Tomeo

Sixty: del "made in Italy" rimangono solo gli esuberi




«Vogliamo conoscere il futuro dell’azienda». Era questo il messaggio che arrivava dal tetto dello showroom della Sixty di Chieti. Marino D’Andrea e Massimo di Francesco, due lavoratori dello stabilimento teatino del gruppo che detiene marchi prestigiosi della moda quali Miss Sixty, Energie, Killah, Murphy&Nye, RefrigiWear, erano saliti su quel tetto per avere risposte chiare sul futuro dell’azienda e dei suoi 414 dipendenti. Una forma di protesta che era partita durante lo sciopero proclamato mercoledì scorso da Femca-Cisl, Uilta-Uil e Filctem-Cgil, ma dalla quale la Cisl non ha perso tempo a dissociarsi: «Non è modo di fare», dice un Rsu Femca-Cisl, secondo il quale l’iniziativa avrebbe dovuto essere concordata. Il protagonismo dei lavoratori, si sa, non è nelle parole d’ordine della Cisl. Hanno resistito finchè hanno potuto. Poi, sabato mattina il messaggio: «Scendiamo con l'amarezza di constatare che questa battaglia l'abbiamo persa. L'abbiamo persa noi e l'hanno persa tutti i lavoratori che si sono sentiti rappresentati e partecipi a questa iniziativa. Lavoratori che speravano che con questo atto così forte, e dopo aver inutilmente percorso per anni la via della trattativa con l'azienda, si contribuisse a dipanare la nebbia che avvolge il loro futuro e quello delle loro famiglie.»

Ad oggi, infatti, nonostante precedenti incontri ministeriali, lavoratori e sindacati non riescono ad avere alcuna informazione sull’affidabilità dell’acquirente, la Crescent HydePark, società di investimento panasiatica che nel maggio scorso ha rilevato il 100% della Sixty. Né si conosce il suo piano industriale (se esiste) e niente è dato sapere sulla proposta di transazione sul debito da circa 300 milioni di euro. E proprio sul debito, lavoratori e sindacati si chiedono come mai questo fardello sia caricato solo sullo stabilimento di Chieti. Ma l’azienda non fornisce alcuna risposta. Un silenzio che si protrae da molti mesi e non fa che aggravare le preoccupazioni dei lavoratori, ormai esasperati dall’incertezza sul loro futuro, da anni di cassa integrazione e con la spada di Damocle dei 170 esuberi previsti.
Certo che la crisi economica avrà avuto il suo peso sulla situazione della Sixty, ma la contrazione del mercato non esaurisce le cause della attuale condizione aziendale. Nel 2006 il gruppo ha prodotto e distribuito in tutto il mondo oltre 20 milioni di capi di abbigliamento, fatturando quasi 700 milioni di euro. Una cifra confermata anche nel 2008. Ma nel 2010, quando l’azienda ha rischiato di cadere, le produzioni dello stabilimento di Chieti erano già state trasferite da qualche mese in Cina ed India dove la mano d’opera costa molto meno. Sta di fatto che oggi la qualità dei prodotti a marchio Sixty risente della scelta di produrre a basso costo e certamente non è con quel tipo di prodotto che si possono avere gli apprezzamenti dei nuovi ricchi dei paesi emergenti. 

Sono quindi del tutto giustificate le preoccupazioni dei lavoratori dello stabilimento teatino, visto che le passate dichiarazioni dei vertici Sixty, che sottolineavano un interesse a riguadagnare i mercati ed in quel senso a cercare un partner che fosse industriale, sono state smentite dai fatti. Sixty appartiene oggi alla Crescent HydePark che, come si legge in un provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, «è un fondo gestito da CHPI Management, una società d’investimento con sede legale nelle Isole Cayman, costituito con lo specifico obiettivo di investire in riconosciuti marchi europei da introdurre nel mercato asiatico».
Lavoratori e sindacati chiedono da tempo di capire se esiste davvero la volontà di mantenere il made in Italy dei marchi Sixty. La risposta a questa domanda è fondamentale per capire le sorti dello stabilimento teatino. È questa una preoccupazione che non può essere confinata a Chieti ed al suo territorio drammaticamente colpito dalla crisi. Il caso Sixty deve essere considerato un caso  nazionale se davvero questo governo ha intenzione, come affermato dal ministro Passera e dal presidente del consiglio Monti, di fare del made in Italy il volano del rilancio economico del nostro paese.

Ora che Marino e Massimo sono scesi dal tetto, «con l'amarezza e la consapevolezza - affermano gli stessi lavoratori - che al di là di inconsistenti promesse ed impegni ottenuti dall'intervento di istituzioni e politici, che in ogni caso ringraziamo, queste nebbie pesano ancora sul futuro» di tutti i lavoratori Sixty, davanti i cancelli della fabbrica continua un presidio permanente che va avanti da mesi, affinchè di made in Italy non rimangano solo gli esuberi. «Siamo stati sconfitti - continuano Marino e Massimo - da un sistema nel quale chi, per difendere i propri diritti, viene stritolato e schiacciato; viene considerato un pericolo pubblico da spazzare via». Una considerazione che in questi giorni trova conferme nella lotta dei lavoratori dell’Alcoa.

Rimane in ogni caso un insegnamento dal coraggio di questi lavoratori: si può alzare il livello della lotta. Anzi, loro dimostrano che alzare il livello della lotta è necessario, ma che per farlo non si può prescindere dal protagonismo di lavoratrici e lavoratori.
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