Lavoratori al cimitero, per davvero


Una maglietta fa scandalo. Un morto ammazzato dalla crisi, invece no. E nemmeno un morto sul lavoro, anche nel caso in cui il reato cadesse in prescrizione e si desse seguito ad una sentenza di “non luogo a procedere”.

Qualche giorno fa i giornali erano pieni di sdegno e polemiche per uno slogan scritto su una t-shirt indossata da una normalissima signora di mezz'età (per dire, non una brigatista conclamata). Certo si trattava di una maglietta non bella, anzi brutta. Quella frase era inopportuna quanto si vuole, ma il grado di pericolosità (se così si può dire) di quello slogan era insignificante e la ministra Fornero non corre maggiori rischi di quanti ne corresse prima che quella maglietta venisse fotografata e diffusa sul web e sulla stampa. Invece, nei fatti e non nelle idee, al cimitero finiscono persone suicide per la crisi economica e lavoratrici e lavoratori morti sul lavoro, in una logica condotta da uno slogan nascosto dalle ipocrisie capitaliste che recita così: “produci consuma e crepa”.
Oggi si leggono due notizie che ricordano quello slogan: una 40enne si uccide, dopo aver denunciato la drammaticità della sua condizione di lavoro; il reato per una morte sul lavoro cade in prescrizione e non si avrà più giustizia. Non sono casi eccezionali. Sono la normalità di un'Italia dove sul lavoro si muore in diverse centinaia ogni anno, al ritmo di 3 persone al giorno e dove centinaia di disoccupati e lavoratori si uccidono (357 disoccupati e 198 per ragioni economiche, nel solo 2009) a causa della crisi economica ed occupazionale.
Perché il nostro è un Paese dove trovare un lavoro è difficilissimo, figuriamoci trovarne uno dignitoso. Dove spesso pur di lavorare si è costretti ad accettare condizioni illegali, lavoro nero, situazioni pericolose per la propria salute e finanche per la propria vita. Dove quando capita la fortuna di riuscire a firmare un contratto, si tratta di uno dei circa quaranta modelli contrattuali precari, che non consentono di progettare un futuro nemmeno a breve termine. Perché quel contratto scade dopo tre mesi, un mese o anche il giorno dopo e perché la retribuzione è così bassa da non poter parlare di stipendio dignitoso.
Si può definire come si vuole il suicidio di una persona costretta a vivere con l’ansia dovuta a queste condizioni del mercato del lavoro. Sta di fatto che il rapporto Eures sul fenomeno del Suicidio in Italia al tempo della crisi conferma “la centralità del lavoro nella possibilità di costruire e/o di portare avanti un progetto di vita”, che di certo non può essere perseguita con maggiore precarietà o facilità di licenziamenti. “Il suicidio per ragioni economiche" – spiega l’Eures – conferma il legame con la “acquisizione/perdita di identità e di ruolo sociale definita dal binomio lavoro/autonomia economica.”
Si mettano insieme il caso della t-shirt con la scritta “Fornero al cimitero” di qualche giorno fa, con la morte (l’ennesima) di una persona strangolata dalla crisi e con la mancata condanna dei responsabili di una delle molte centinaia di morti sul lavoro che ogni anno si contano in Italia. A quel punto davvero ci vuole un bella faccia tosta per stigmatizzare lo slogan di una maglietta e contemporaneamente continuare ad accettare politiche del lavoro che, al meglio, non risolvono la precarietà di vita ed in genere la peggiorano.
Mi vengono in mente le parole di Vaneigem: “Quelle che devono essere condannate non sono le idee, ma le vie di fatto. Oggetto d’incriminazione non devono essere i discorsi ignominiosi del populismo – altrimenti bisognerebbe denunciare anche la loro subdola infiltrazione e la loro presenza camuffata nelle dischiarazioni demagogiche della politica clientelare e benpensante -, ma le violenze contro beni e persone, perpetrate dai fautori della barbarie”. Stabilite voi se i fautori della barbarie accentuata dalla crisi economica, siano signore con una maglietta o chi stabilisce che una riforma del lavoro debba prevedere la cancellazione degli ultimi diritti dei lavoratori.

Sulle «frequenti ipocrisie» del presidente di Legambiente Abruzzo



L’impianto a biomasse da 4 MW che la società Istonia Energy ha in progetto di realizzare a Vasto, a ridosso della riserva regionale di Punta Aderci, è uno dei progetti contestati in Abruzzo. La protesta contro quell’insediamento è classificata come “nimby” (Not In My Back Yard: non nel mio cortile) dall’Osservatorio Nimby Forum, che il presidente di Legambiente Abruzzo, Angelo Di Matteo cita per polemizzare nei confronti di quelle stesse contestazioni, che a detta del nostro si tratterebbero di «frequenti ipocrisie» (vedi Il Centro del 13 marzo 2012, pag. 10).
Con molta probabilità, l’elenco delle contestazioni che quell’Osservatorio etichetterà come nimby crescerà di numero nel giro di poco tempo, andando a comprendere anche quelle relative ad una centrale a biomasse da 17 MW, ad un cementificio e ad un impianto di recupero di rifiuti pericolosi. Tutti insediamenti che si vorrebbero far sorgere a poche centinaia di metri dalla riserva naturale di Punta Aderci, uno dei luoghi più pregiati d’Abruzzo dal punto di vista ambientale.

Per quanto Di Matteo possa dirne, è certo invece che chi contesta la localizzazione di quegli insediamenti non soffre di alcuna sindrome nimby. A dimostrazione di ciò si potrebbero elencare le documentazioni prodotte a sostegno del parere contrario a quei progetti. Lo stesso Partito della Rifondazione Comunista, del cui circolo di Vasto sono membro del direttivo, ha inviato alla regione Abruzzo pagine di osservazioni, che motivano le incompatibilità di quel tipo di impianti con le aree dove si pensa di realizzarli. E con Rifondazione Comunista, si sono espresse contro quei progetti diverse associazioni ambientaliste e comitati cittadini, fino a portare la contestazione davanti al TAR; mentre il comune di Vasto ha presentato ricorso straordinario al presidente della Repubblica. Già questi sommari riferimenti mostrano che quelle contestazioni non sono manifestazioni da sindrome di nimby, ma al contrario evidenziano la piena consapevolezza dei cittadini, dei gravi e certi rischi sanitari ed ambientali che sarebbero generati da quegli impianti.

D’altronde è facile cadere in errore nel valutare quelle contestazioni se, come fa Di Matteo, per validarle ci si riferisce alle considerazioni del Nimby Forum, progetto “nato nel 2004 con l'obiettivo di analizzare l'andamento della sindrome nimby” (così si legge testualmente sul sito dell’Osservatorio). Sembrerà pure una congettura, ma classificare a priori come nimby le proteste territoriali che si vogliono analizzare, appare (nemmeno troppo) vagamente pregiudiziale. E forse non potrebbe essere altrimenti, visto che l'attività dell'Osservatorio del Nimby Forum si basa sul censimento di articoli raccolti da quotidiani e periodici, da cui non è chiaro come si evinca il grado di consapevolezza della popolazione intorno all'opera contestata o il grado di attendibilità degli studi che i cittadini compiono, per classificare come nimby la protesta. Soprattutto, però, è interessante osservare la struttura organizzativa del Nimby Forum, del cui comitato scientifico è membro, tra gli altri, Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente.

Il Nimby Forum è un progetto che appartiene alla associazione no-profit Aris, mentre la comunicazione è affidata alla società Allea S.r.l. Da notare che alla presidenza di Aris e di Allea c’è la stessa persona: Alessandro Beulcke. Mentre il vicepresidente dell’Aris è anche curatore del comitato scientifico del Nimby Forum. Insomma, è già evidente uno stretto rapporto tra Nimby Forum, Aris e Allea. I dubbi di imparzialità balzano agli occhi anche del meno attento degli osservatori, quando si va a constatare le attività di queste organizzazioni, così saldamente legate tra loro.
L’associazione Aris, quella che ha la paternità dell’Osservatorio Nimby Forum, “progetta e realizza studi, ricerche e iniziative di divulgazione nei settori ambiente ed energia, infrastrutture e trasporti, industria e servizi.” Tra i sostenitori di Aris ci sono singoli individui, istituzioni e imprese “che credono negli obiettivi dell’associazione” e tra i collaboratori la già citata Allea. Quest’ultima società si occupa invece di sviluppare “strategie, progetti e azioni per costruire consenso intorno alle iniziative sociali, industriali e politiche dei propri clienti […] operando prevalentemente nei mercati dell'energia, dell'ambiente, delle infrastrutture e dei trasporti”. A questo punto appare ovvia la curiosità: chi sono i clienti di Allea, società che cura la comunicazione del Nimby Forum e che collabora con Aris, che il Nimby Forum lo gestisce? Tra la sessantina di clienti elencati sul sito di Allea, troviamo ad esempio la Edipower; il Gruppo Impregilo; la A2A, la società che gestisce gli inceneritori di Brescia ed Acerra, oltre alla centrale turbogas di Gissi. In sostanza, società che operano nel campo di infrastrutture ed impianti di produzione energetica, fino agli “inceneritoristi”, pagano la Allea (società che, ripeto, cura la comunicazione del Nimby Forum) per creare consenso intorno alle opere che si vogliono realizzare, contestate da cittadini ai quali l’Osservatorio Nimby Forum si affretta di diagnosticare la sindrome nimby.

A queste organizzazioni si richiama Di Matteo per affermare la necessità di informazione ai cittadini e per accusare di impreparazione “il mondo politico”. Peggio ancora fa Di Matteo quando cita il rapporto del Nimby Forum per arrivare ad aprire, pure se timidamente, alla deprecabile pratica dell’incenerimento dei rifiuti (intorno alla quale sono venuti alla luce, in Abruzzo, interessi davvero poco limpidi). Mi pare invece di poter dire, a questo punto, che intorno ai nuovi progetti di impianti molto impattanti sull’ambiente, oltre ai profitti molto spesso rapidi, sicuri e speculativi delle società proponenti, si sia creato un vero e proprio mercato del consenso, la cui filiera è quella già descritta.

Chi vuole o ha interessi a farlo, continui pure ad affidarsi ai dati dell’Osservatorio del Nimby Forum. Per parte nostra, continueremo a contestare quei progetti e quelle opere che portano benefici solo a chi vuole realizzarli. Mentre ai cittadini prospettano un netto peggioramento della qualità della vita.

L'impresa è l'impresa ed i lavoratori non sono un c....

Diceva qualche giorno il ministro del Lavoro, Elsa Fornero che il governo non può dire alle imprese quello che possono o non possono fare. Si riferiva in quell'occasione alla Fiat ed ai timori che l'azienda torinese spostasse il suo baricentro negli USA. Poi corregge il tiro in quell'intervista senza domande rilasciata a "Che tempo che fa" su Rai3, ed afferma che anche la Fiat deve avere comportamenti responsabili. Se così invece non fosse? "..."
Intanto, però, Fiat può licenziare senza giusta causa tre lavoratori, perdere la causa e perciò sentirsi ordinare dal giudice che quei tre operai devono essere reintegrati, e nonostante tutto continuare a non farli lavorare; può mettere fuori dalle fabbriche la Fiom, nonostante la legge non lo conseta; può firmare con Cisl, Uil, Fismic e Ugl un contratto che limita un diritto fondamentale come quello di sciopero. Quindi, mentre il governo non può dire alle imprese cosa possono o non possono fare, quest'impresa può dire ai lavoratori quali diritti possono mantenere e se e quando possono goderne. Perchè tanto la Fiat è la Fiat e gli operai non sono un cazzo.

Nel novembre 2010 viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il cosiddetto "Collegato lavoro" (Legge 183 del 24 novembre 2010). Un testo di legge che prevede, tra le altre cose, un tempo limite per impugnare un contratto illegittimo. Un lavoratore che vorrà far vaelere un proprio diritto, dovrà farlo entro 2 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, pena la sua decadenza. Un diritto con codice a barre e data di scadenza, proprio come una merce.
Basta così? No, perchè quella stessa legge prevede che all'atto della firma del contratto di lavoro, le parti (delle quali il lavoratore è quella debole, specie in quel momento) scelgano se, in caso di controversia, ci si rivolgerà ad un giudice o un arbitro che dovrà decidere in base a generici e discrezionali principi di equità.
Questa legge pare dimenticata, ma è viva e vegeta. La ricattabilità dei lavoratori da parte delle aziende ha trovato piena legittimazione in quella Legge. Perchè tanto le aziende sono aziende ed i lavoratori non sono un cazzo.

A questo contesto legislativo, culturale, economico e sociale, che vede le imprese dominare nei rapporti con i lavoratori, si inserisce ora quello che di fatto è lo smantellamento dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Secondo la versione abbozzata dal governo e sostenuta da Cisl e Uil e politicamente da PDL, UDC ed una grossa fetta di PD (l'altra parte, vedi Bersani, auspica comunque una modifica, seppure meno drastica), il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato potrà avvenire solo in caso di licenziamento discriminatorio. Sarà invece il giudice a decidere tra il reintegro ed un indennizzo per i licenziamenti per motivi disciplinari; mentre per i licenziamenti di tipo economico non è previsto il reitegro del lavoratore, a cui spetterà solo un indennizzo. Il tribunale, quale luogo per far valere i propri diritti negati è di nuovo considerato un peso, un fastidio da limitare. Infatti, scrive Ichino (PD) in una lettera al Corriere della Sera, che la modifica dell'articolo 18 serve ad "evitare l'alea della controversia in tribunale".
E' chiaro che sarà sufficiente avere disponibilità di pagare un indennizzo, per sbattere fuori un lavoratore, adducendo motivi economici. Insomma, i diritti assumono il valore di un "tot" di mensilità di indennizzo, pagato da un'impresa che può permettersi così di negare il diritto al lavoro di un lavoratore. Perchè tanto l'impresa e l'impresa e chi lavora non è un cazzo.

E' evidente che c'è una chiara volontà a trasformare i diritti di chi lavora in una questione privata tra datore di lavoro e lavoratore. Il diritto del lavoro che diventa diritto commerciale, dove c'è uno abbastanza ricco da comprare a basso costo i diritti di un altro troppo povero per poterli rivendicare.
Ed i sindacati "complici" dicono che deve essere così; il PDL dice che va benissimo così; una parte del PD dice che dovrebbe andare un po' meno peggio di così, mentre l'altra parte dice che va bene così. Perchè tanto il padrone è il padrone e voi non siete un cazzo. A meno che non si opponga a questo disegno, una lotta ampia e generalizzata.

Articolo 18: altro che accanimento ideologico. Concreto progetto padronale

La modifica dell'articolo 18, che il governo sta cercando di fare con i sindacati "complici" e Confindustria, non è dettata da accanimento ideologico. E' vero che una maggiore facilità di licenziamento non implica maggiori investimenti, come si cerca spesso di far credere. Nessuno spiega la propaganda secondo la quale una maggiore libertà di licenziamento, comporterebbe maggiore occupazione. "Più occupazione per giovani e donne" è la misera motivazione del ministro del Lavoro, Elsa Fornero per giustificare una riforma che se approvata significherà, ancora una volta, far pagare alle lavoratrici ed ai lavoratori il costo della crisi e le politiche imposte dalla troika, BCE, UE e FMI.

Nonostante le oggettive incongruenze tra i presunti effetti positivi della riforma e la realtà (che invece racconta di maggiore precarietà, spostamento della ricchezza dal lavoro ai profitti, ecc.), l'ideologia c'entra davvero poco, con i motivi della riforma e dello smantellamento dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Nelle intenzioni del governo, spalleggiato da Cisl, Uil, Confindustria e da partiti quali PDL, UDC e gran parte del PD, il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato dovrebbe aversi solo in caso di motivi discriminatori e cioè quando un lavoratore venga licenziato per motivi politici, religiosi, razziali, di lingua o di sesso. In caso di licenziamento per motivi disciplinari, un giudice deciderebbe tra il rentegro ed il risarcimento; mentre non ci sarebbe possibilità di reintegro se il licenziamento avesse motivazioni di tipo economico. E' facile ipotizzare che nel momento in cui un'impresa volesse ad esempio sbarazzarsi del fastidio di un lavoratore sindacalizzato, o di una donna incinta o anche di un lavoratore o lavoratrice costretta ad assentarsi dal lavoro per accudire un familiare con gravi patologie, basterà addurre motivazioni economiche per licenziare senza possibilità di reintegro.

Altro che accanimento ideologico: si tratta di un concreto spostamento dei rapporti di forza tra datore di lavoro e lavoratori. La riforma in questi termini dell'articolo 18, soprattutto in un Paese come il nostro che occupa poco invidiabili posizioni di vertice nelle classifiche dei paesi Ocse su basse retribuzioni, facilità di licenziamento, disoccupazione (specie giovanile e delle donne), alta precarietà, bassa spesa per wefare, scarsa capacità del sistema di reimpiegare lavoratori e lavoratrici scartati dal mercato del lavoro; in queste condizioni, si diceva, questa riforma costringerà ancor di più lavoratrici e lavoratori a dover accettare condizioni di lavoro anche più sfavoreli di quelle esistenti. Significherà per molti dover rinunciare a reclamare maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro ed a rivendicare i propri diritti. Significherà, specie per giovani e donne dover accettare anche più bassi livelli di retributivi. Significherà guerra tra poveri, indebolimento delle organizzazioni sindacali, minore forza rivendicativa da parte dei lavoratori. Insomma, se questa riforma trovasse applicazione, significherebbe uno spostamento dei rapporti di forza in direzione padronale, tale da determinare inevitabilmente un generale peggioramento delle condizioni di lavoro e sociali. Nessun astratto acccanimento ideologico, quindi, ma concreto disegno padronale e concreta ripercussione sulla quotidianità e sui progetti di vita di persone in carne ed ossa.

Mi pare più sufficiente per proclamare uno sciopero generale e una mobilitazione dei lavoratori lunga e generalizzata. Prima che sia troppo tardi.



A questo link è possibile firmare la petizione per la difesa e l'stensione dell'articolo 18.

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I cavalieri dell'apocalisse dei diritti del lavoro

Alla fine Monti mette d'accordo tutti: Bersani, Casini, Alfano tutti insieme a smontare con un colpo solo l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Si parla di modello tedesco per i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo. In sostanza, se oggi grazie all'articolo 18 il lavoratore viene reintegrato in azienda, se il giudice ravvisa che non esista un giustificatomotivo al suo licenziamento, con il modello tedesco al giudice è affidata la scelta tra reintegro e indennizzo. E il reintegro rimarrebbe solo per motivi discriminatori.

Gli italiani secondo la Fornero? Mangia-spaghetti

Ci si è messa anche la ministra Fornero a dare sostanzialmente dei fannulloni agli italiani.
E' vero che elementi di continuità con il governo Berlusconi, quello Monti ne ha offerti già alcuni: chiedere ai valsusini per quanto rigarda la repressione del dissenso; il tentativo di eliminare i controlli nelle aziende (ed in parte ci stanno riuscendo); l'attacco frontale all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per citarne qualcuno. E quanti auspicavano toni meno macchiettistici, del governo Monti rispetto al precedente, dovrebbero mostrarsi delusi.

La manifestazione Fiom e l'irrinunciabile opportunismo del PD


In realtà il presidente della comunità montana della Val di Susa ha tolto le castagne dal fuoco al Partito Democratico. Non c’è da stupirsi che il PD abbia deciso di disertare la manifestazione nazionale a Roma del prossimo 9 marzo. Era già capitato per la manifestazione della Fiom del 16 ottobre 2010. Allora c’era Fioroni che raccomandava di «fare attenzione a mischiarsi con i centri sociali», mentre Fassina dichiarava la sua volontà di partecipare alla manifestazione. Oggi il problema sono i cittadini della Val di Susa, descritti come pericolosi e richiamati in maniera strumentale al rispetto della legalità, anche dal presidente della Repubblica. L’eterogeneità espressa dalle posizioni di Bersani e Veltroni, Fassina e Letta, Vita e Fioroni, più che un grande partito ne fa solo un partito grande, per dirla con una famosa pubblicità di pennelli.

A Fassina che parla di una manifestazione che con la partecipazione del presidente della comunità montana della Val di Susa si sarebbe «caricata anche di altri contenuti», motivo per il quale avrebbe rinunciato a parteciparvi, non può credere nessuno. Basta leggere la piattaforma della manifestazione promossa dai metalmeccanici della Cgil, per notare come il No alla Tav sia assolutamente coerente. «La sostenibilità ambientale delle produzioni e dell’uso del territorio» è un punto decisivo della piattaforma approvata dal Comitato centrale della Fiom, che si inserisce coerentemente nell’opposizione alle «scelte del Governo italiano», che rispecchiano imposizioni di istituzioni come la BCE che di fatto succhiano sovranità politica all’Italia. Quest’ultimo aspetto, d’altronde, richiama la necessità di lottare per «per una diversa idea d’Europa fondata sul lavoro e la democrazia». Elementi, quelli richiamati nella piattaforma dello sciopero Fiom, che non possono essere rivendicati in fabbrica e messi da parte fuori dai luoghi di lavoro. Un richiamo, quello al lavoro ed alla democrazia ed alla loro inseparabilità, che è perfettamente rappresentato dalle numerose lotte in campo per il lavoro; per la democrazia nei luoghi di lavoro; per i beni comuni; fino alla resistenza dei valsusini.

Ma per nessuna di quelle lotte il PD ha avuto la capacità di prendere una posizione chiara. L’opportunismo è per il PD elemento irrinunciabile e quasi fisiologico, per sostenere da “sinistra” sconcezze politiche come il pareggio di bilancio nella Costituzione, richiesto dai tecnocrati dell’UE e mai sottoposto al giudizio dei cittadini, che pure saranno costretti a subirne le amarissime conseguenze. Questioni, ancora una volta, che richiamano all’esercizio della democrazia. Come vi richiamano, in una repubblica fondata sul lavoro: la difesa dell’articolo 18, la reale rappresentanza sindacale, la difesa dei diritti del lavoro. Così com’è questione di esercizio della democrazia, il No al Tav Torino-Lione.

Nimby e consenso. Se il ministero paga per costruirli.

Ha avuto un certo risalto, nei giorni scorsi, il rapporto del Nimby Forum, che monitora il fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali. L’ultimo rapporto annuale ha messo inevidenza che le opere contestate in Italia sono in totale 331, delle quali 163 nate nel corso dell' ultimo anno e 168 che partono dal 2004. Il comparto più contestato riguarderebbe il settore elettrico, con il 62,5% delle opere alle quali si dice “no”; poi vengono i rifiuti con il 31,4%, fino alle infrastrutture con il 4,8% di opere contestate. In quest’ultimo ambito ricade ovviamente il TAV a cui si oppongono da vent’anni gli abitanti della Val di Susa.
Questo rapporto cade, come si suol dire, a fagiolo, nel pieno delle contestazioni ‘No Tav’. E così anche il ministro dell’ambiente, Corrado Clini ha potuto approfittare del rapporto per dichiarare che, visti quei dati, si rende evidente la necessità per l’Italia di «recuperare l'autorevolezza delle istituzioni, e rafforzare l'autonomia, quando si tratta di decidere sulle opere pubbliche». È chiaro che ogni riferimento a fatti o cose non è per niente casuale.

Certo che a prima vista può far impressione leggere il numero di fenomeni nimby (acronimo di “Not In My Back Yard”, e cioè “non nel mio cortile”) censiti dall’Osservatorio del Nimby Forum. Ma a guardare la struttura organizzativa di questo “progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali”, può venire qualche dubbio sull’imparzialità dell’Osservatorio.
Intanto si nota subito che nel comitato scientifico del Nimby Forum figura, tra gli altri, Mario Virano, presidente “Osservatorio Torino-Lione”, strenuo sostenitore del TAV. Lo stesso comitato scientifico è curato da Emilio Conti, che oltre ad essere docente in comunicazione ambientale alla IULM di Milano, è anche Vicepresidente dell’Aris, associazione no profit che gestisce l’intero progetto Nimby Forum. La comunicazione del progetto è affidata alla società Allea, il cui presidente, Alessandro Beulcke è anche presidente Aris. Ma andiamo con ordine.

Il Nimby Forum, si legge sul sito del progetto, è “nato nel 2004 con l'obiettivo di analizzare l'andamento della sindrome nimby”. Sarà pure una congettura, ma classificare a priori come nimby le proteste territoriali che si vogliono analizzare, appare (nemmeno troppo) vagamente pregiudiziale. D'altronde l'attività dell'Osservatorio del Nimby Forum, si basa sul censimento censimento di articoli raccolti da quotidiani e periodici, da cui non è chiaro come si possa evincere il grado di consapevolezza della popolazione intorno all'opera contestata o il grado di attendibilità degli studi che i cittadini compiono, per classificare come nimby la protesta. La pregiudiale analisi del Nimby Forum è una congettura che sembra però trovare conferma nell’Aris (che, è bene ricordarlo, gestisce il progetto Nimby Forum), associazione che (si legge sul sito) “progetta e realizza studi, ricerche e iniziative di divulgazione nei settori ambiente ed energia, infrastrutture e trasporti, industria e servizi.” Tra i sostenitori di Aris ci sono singoli individui istituzioni e imprese “che credono negli obiettivi dell’associazione” e tra i collaboratori la già citata Allea.

Quest’ultima società (non un’associazione no profit, ma una S.r.l.), si occupa di sviluppare “strategie, progetti e azioni per costruire consenso intorno alle iniziative sociali, industriali e politiche dei propri clienti […] operando prevalentemente nei mercati dell'energia, dell'ambiente, delle infrastrutture e dei trasporti”. A questo punto appare ovvia la curiosità: chi sono i clienti di Allea, società che cura la comunicazione del Nimby Forum e che collabora con Aris, che il Nimby Forum lo gestisce? Tra la sessantina di clienti elencati sul sito di Allea, troviamo ad esempio la A2A, la società che gestisce gli inceneritori di Brescia ed Acerra; la Edipower; il Gruppo Impregilo e lo stesso ministero dell’Ambiente. In sostanza, sembra che il ministero dell'Ambiente paghi una società per creare consenso intorno alle opere che vuole realizzare sul territorio italiano!
Pensare ad una ricerca di vero dialogo, di un reale ed onesto confronto con le popolazioni da parte del ministero dell'Ambiente e del governo, sembra davvero improbabile con queste premesse.

Insomma, ovvio che il ministro dell’Ambiente si riferisca al censimento e alla classificazione del Nimby Forum, per giustificare la necessità di un recupero di autorevolezza contro le proteste territoriali. Ma è chiaro anche che, se il ministero paga una società per creare consenso intorno ai suoi progetti, il punto di vista di Corrado Clini (e dell’intero governo, e dei partiti che lo sostengono) non può essere lo stesso dei valsusini, o dei cittadini di Vasto (Ch) che contestano i progetti di cementifici e centrali a biomasse nella più pregiata riserva naturale d’Abruzzo.

Ci sarebbe da chiedersi se anche le manganellate, i lacrimogeni e le rincorse sui tralicci rientrino nelle strategie e azioni per costruire consenso.
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