Mettere in discussione gli accordi padronali: questo il compito immediato del PRC

Lo scorso 8 dicembre, nella sua giornata conclusiva, il congresso nazionale di Rifondazione Comunista ha approvato un ordine del giorno della federazione di Chieti che impegna il partito «ad organizzare momenti di discussione sul tema della democrazia nei luoghi di lavoro e di contrasto agli accordi che limitano i diritti dei lavoratori o li subordinano alla cosiddetta ‘competitività d’impresa’.» l’ordine del giorno chiamava in causa e criticava gli accordi del 28 giugno 2011 (sulle deroghe ai contratti) e del 31 maggio 2013 (su esigibilità dei contratti e rappresentanza sindacale). Tale impegno era (ed è) dettato dal fatto che la democrazia e l’agibilità sindacale sono questioni fondamentali «per la difesa e la tutela dei diritti nei luoghi di lavoro e per agire il conflitto quale terreno indispensabile per le conquiste dei lavoratori.»
A due mesi esatti dalla fine del congresso, quell’ordine del giorno è rimasto praticamente lettera morta. In conseguenza di quanto approvato dal congresso il partito ha prodotto solo un nuovo ordine del giorno, approvato nel CPN del 11 e 12 gennaio, molto più generico, che nella sostanza si limita ad auspicare per il congresso della Cgil «una svolta, che rimetta al centro la costruzione della mobilitazione, del conflitto e di un progetto alternativo alle politiche liberiste, per i diritti sociali e del lavoro». Ci pare un po’ poco. Certamente insufficiente rispetto a quanto si sta muovendo all’interno della Cgil, nonostante era già stata posta la firma della segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso sull’accordo del 10 gennaio 2014 che regola in maniera dettagliata le regole sulla rappresentanza e sull’esigibilità dei contratti. Una firma che pesa come una spada di Damocle sulla testa dei lavoratori che lottano ogni giorno nei luoghi di lavoro e sulle spalle della Fiom per schiacciarla con tutto il peso della “normalizzazione” entro cui la Cgil, da anni, cerca di riportarla.
Da un punto di vista (potremmo dire) tecnico non ci pare ci siano novità sconvolgenti nell’accordo del 10 gennaio rispetto a quanto già era scritto nell’intesa del 31 maggio 2013 su rappresentanza ed esigibilità dei contratti. Solo che ora è tutto più esplicito. Mentre tra le righe dell’accordo del 10 gennaio si legge, sì, un regolamento, ma un regolamento di conti tra Susanna Camusso e Fiom, con la prima che ha sempre mal digerito la conflittualità dei metalmeccanici che non si rassegnano ad un sindacato neocorporativo.
Rifondazione Comunista rimane intanto ferma di fronte a questo scenario, nuovo ma francamente non imprevedibile. E invece dovrebbe o no interessarci il basso livello di partecipazione al congresso della Cgil? Dovrebbe o no interessarci l’accelerazione neocorporativa impressa dalla Camusso al maggior sindacato italiano? Dovrebbe o no interessarci l’esito del congresso? La risposta è scontata: sì, deve interessarci. Ma allora occorre avere chiaro quale ruolo Rifondazione Comunista vuole assumere rispetto al congresso della Cgil che, è scontato dirlo, sta impegnando molte compagne e molti compagni del nostro partito, sia a sostegno del primo che del secondo documento.
Senza entrare nel merito delle proposte congressuali, è necessario però notare che il primo documento sostenuto dalla Camusso, rivendica l’accordo del 31 maggio 2013 come un «accordo positivo, frutto dell’iniziativa di tutta la Cgil», senza critiche quindi. Quell’accordo è stato prodromo di quello oggi contestatissimo del 10 gennaio e sul quale abbiamo avuto (e continuiamo ad avere) posizioni molto deboli. Soprattutto, però, l’accordo del 31 maggio 2013, per stessa ammissione della maggioranza della Cgil (nero su bianco sul primo documento congressuale), non è scindibile dal contestatissimo (anche da Rifondazione comunista) accordo sulle deroghe del 28 giugno 2011. Accordo quest’ultimo che ha aperto la strada al famoso articolo 8 sui quali compagne e compagni di Rifondazione Comunista si sono spesi per raccogliere firme per un referendum abrogativo.
Eppure che l’accordo del 31 maggio 2013 non fosse un avanzamento rispetto a quello del 28 giugno 2011, ma semmai un combinato disposto sfavorevole per i rapporti di forza dei lavoratori rispetto al padronato, qualcuno, anche nel nostro partito lo diceva da tempo (cioè, appunto, dal 31 maggio 2013). Inascoltato. Ecco quindi la valenza dell’ordine del giorno approvato al nostro congresso che abbiamo richiamato all’inizio di questo nostro intervento.
Ma ad oggi non è più giustificabile l’atteggiamento di Rifondazione Comunista che si pone come semplice osservatore rispetto a quanto avviene in Cgil, per una sorta di rispetto dell’indipendenza del sindacato. . Il Partito deve, ora più che mai, affrontare il nodo del rapporto con il sindacato, perché è proprio qui che si gioca la capacità egemonica del Partito di organizzare i lavoratori.
La scelta di non scegliere, già fallimentare in passato, non è più percorribile. Non di fronte allo snaturamento del sindacato confederale nell’attuale fase neocorporativa. Non di fronte ad un congresso della CGIL in cui i lavoratori sono chiamati ad esprimersi su scelte fondamentali che andranno ad incidere profondamente sulle loro vite e sul loro futuro. Non di fronte ad un accordo scellerato, come quello del 10 gennaio che segna uno spartiacque nei rapporti tra il sindacato e i lavoratori che esso dovrebbe rappresentare, ma anche nei rapporti interni alla stessa CGIL, aprendo quelle contraddizioni che, finora, erano rimaste contenute e confinate all’interno del documento di maggioranza, ma che ora, nel quadro di normalizzazione interna portato avanti dalla Camusso, inevitabilmente vengono a galla.
Come dicevamo, in Cgil militano nelle varie federazioni molte compagne e molti compagni. Oggi si danno battaglia nel congresso Cgil, mentre ancora non sono terminati gli strascichi delle difficoltà congressuali che hanno caratterizzato il nostro. Rischiamo di subire in questo modo una lacerazione interna a causa della conflittualità già presente tra le mozioni congressuali della Cgil, ora esacerbate dall’irresponsabile comportamento della Camusso nei riguardi della Fiom, che addirittura, secondo indiscrezioni, minaccia sanzioni nei confronti di Landini.
Occorre perciò che le compagne ed i compagni di Rifondazione Comunista svolgano in Cgil un ruolo propositivo che intervenga sul dibattito congressuale contro la deriva neocorporativa della Camusso.
Nonostante le sollecitazioni, il Partito non ha sviluppato un dibattito interno che entrasse nel merito delle posizioni congressuali. Adesso, nel vivo del congresso, occorre però chiarezza nella critica e nella proposta, a partire dalla messa in discussione degli accordi del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e soprattutto, ad oggi, di quello del 10 gennaio. Esattamente nel rispetto di quanto emerso dal nostro congresso.
All’interno di un quadro che vede i lavoratori oggetto di un attacco costante da parte dei governi neoliberisti, volto a peggiorarne le condizioni materiali, ad eroderne le tutele ed i diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti, ad inibirne gli strumenti di lotta, sacrificando il tutto sull’altare dell’austerità, dobbiamo, dunque, comprendere quale debba essere il ruolo del nostro partito e dei comunisti, partendo dalla necessità di rimettere al centro della nostra analisi e della nostra azione politica la centralità del conflitto tra capitale e lavoro.
Il Partito, da ormai diversi mesi, ha declinato il tema del lavoro nella proposta di iniziativa di legge popolare per un Piano per il lavoro.
Tale proposta, contiene alcuni elementi che possono essere utilizzati dai nostri compagni e dalle nostre compagne per caratterizzare la battaglia congressuale nel sindacato, qualificando il dibattito con alcuni spunti di riflessione che possono intersecarsi con le istanze concrete che emergono dalle assemblee di base. E’ proprio qui che possiamo costruire consenso attorno alle nostre proposte poiché, nonostante la bassa partecipazione e, spesso, la scarsa sindacalizzazione, abbiamo la possibilità di confrontarci direttamente con i lavoratori e con i loro bisogni concreti. E, da lavoratori, a nostra volta, e da comunisti, è ai lavoratori che dobbiamo rivolgerci, senza la mediazione delle burocrazie sindacali, declinando le nostre proposte nei diversi contesti produttivi, nelle diverse categorie, nelle specifiche realtà territoriali ed aziendali, dalle quali emergono istanze e proposte che dobbiamo essere in grado di intercettare ed inserire in un piano complessivo nel nostro agire politico.
Caratterizziamo il dibattito su temi fondamentali, a partire dalla lotta alle politiche di austerità, che sarà il tema portante anche della nostra partecipazione alle elezioni europee. Poniamo con forza il rilancio dell’intervento pubblico in settori strategici come la sanità, oppure la scuola, l’ università e la ricerca, che da anni sono oggetto di un attacco sistematico e che necessitano di un rifinanziamento e di investimenti concreti, invertendo definitivamente la rotta delle politiche dei tagli ai diritti ed ai posti di lavoro, perfettamente rispondenti alle logiche aziendalistiche e privatistiche volute dai governi neoliberisti, con il plauso della Confindustria e della CEI.
Più in generale, rimettiamo al centro il tema della lotta alle privatizzazioni (acqua, rifiuti, servizi sociali, etc), poiché i tentativi in questa direzione, da parte di governo e regioni, sono già in atto, e non possiamo farci cogliere impreparati.
Portiamo proposte concrete, che possano impattare immediatamente sulle esigenze dei lavoratori, come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, o la lotta alle delocalizzazioni produttive, tema più che mai attuale anche all’interno del dibattito congressuale, poiché va a toccare, tra le altre cose, il problema dell’aumento dei livelli di sfruttamento, oltre che quello della logica ricattatoria del baratto tra posto di lavoro e diritti dei lavoratori, come dimostrano, solo per citare alcuni casi emblematici, le vertenze della Fiat e dell’Electrolux.
Da questo punto di vista, come Partito, dovremmo sviluppare proposte che siano in grado di intercettare tutti quei lavoratori che si trovano in una condizione di maggiore ricattabilità ed assoggettamento alle logiche del mercato, impedendone non soltanto la formazione di una coscienza politica, ma addirittura sindacale, ovvero, coloro che rientrano nelle attuali forme di sfruttamento che il capitale impone, dal frammentato e atomizzato mondo del precariato a quello delle partite IVA, fino alle moderne forme di schiavitù costituite dal lavoro nero ed, in particolare, da quello dei lavoratori migranti.
L’impegno del nostro Partito sulle tematiche del lavoro non può essere demandato ad una raccolta firme per un’iniziativa di legge popolare che, soprattutto in una fase di totale svuotamento di poteri delle istituzioni democratiche, viene percepito dal nostro stesso corpo militante come l’ennesimo dispendio di energie senza efficacia pratica, e, nel merito, non scardina la logica capitalistica nè sposta i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Occorre accompagnare la campagna del Piano per il lavoro ad una capillare opera di radicamento nei luoghi di lavoro, da quelli della produzione materiale a quelli della produzione intellettuale, fino ai luoghi dello sfruttamento del lavoro precario, e nelle vertenze, che, devono uscire dal loro isolamento e dall’impotenza cui il capitale cerca di confinarle, dividendo i lavoratori, ma trovare uno sbocco politico. Questo deve essere il compito del nostro Partito.
Se, da un lato, è importante trovare degli strumenti di propaganda efficaci, che consentano al partito di raggiungere i propri soggetti sociali di riferimento, è ancor più importante elaborare proposte in grado di rispondere realmente alle esigenze concrete dei lavoratori, schiacciati dalla crisi e dalle politiche neoliberiste. Ma, soprattutto, è necessario che il Partito recuperi un rapporto organico con la propria classe e che si ponga come obiettivo prioritario il radicamento nei luoghi di lavoro, nei luoghi della produzione materiale ed intellettuale. Ed è proprio da qui, dai processi produttivi e dalla lotta di classe, che dobbiamo ripartire per il rilancio e la ricostruzione del nostro Partito.

Arianna Ussi, Direzione Nazionale PRC – Collettivo Stella Rossa,
Carmine Tomeo, Responsabile lavoro segreteria reg. PRC Abruzzo.

La necessità di difendere la memoria antifascista dal mito delle foibe



Quando si parla e soprattutto quando si partecipa alle commemorazioni della Giornata del Ricordo, il 10 febbraio di ogni anno, si dovrebbe innanzitutto (o quanto meno) tenere presente di cosa si sta celebrando. Ovviamente la propaganda patriottarda e neo-irredentista racconta la storia dell’esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia dalle persecuzioni titine. Ma intanto occorre tenere a mente cosa rappresenta storicamente il 10 febbraio.


La Giornata del Ricordo nasce in sostanziale contrapposizione alla giornata della memoria del 27 gennaio. Non è casuale la vicinanza delle due ricorrenze e abbastanza evidente dovrebbe apparire la contrapposizione. Il 27 gennaio è il giorno in cui l’Armata rossa entra ad Auschwitz, libera il campo di sterminio e mette davanti agli occhi del mondo la barbarie nazista; il 10 febbraio, per contro, è il giorno del 1947 durante il quale venne firmato il trattato di pace di Parigi, a seguito del quale l’Italia sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale nel quale era stata precipitata dal fascismo, dovette cedere alla Jugoslavia vincitrice del conflitto gran parte dei territori dell’Istria che erano stati conquistati dall’Italia nella sua guerra imperialista: la Prima Guerra Mondiale.


È chiaro, quindi, quali riferimenti storici stiano alla base delle celebrazioni della giornata del ricordo: quelli dell’imperialismo italiano, sconfitto con il fascismo nella Seconda Guerra Mondiale. È a questa sconfitta (dell’imperialismo e del fascismo) che i “foibologi” non vogliono rassegnarsi. Non è un caso che fu Roberto Menia il primo firmatario nel 2003 della proposta di Legge per l’istituzione della giornata del ricordo, lo stesso che nel 1992, quand’era segretario della federazione del Msi-Dn di Trieste, insieme a Gianfranco Fini (allora segretario nazionale dello stesso partito), lanciava bottiglie in mare al largo di Istria contente il seguente messaggio: «Istria, Fiume, Dalmazia: Italia!... Un ingiusto confine separa l'Italia dall'Istria,
da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Yugoslavia [Jugoslavia con Y nel testo originale] muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975 oggi non valgono piu'.. E' anche il nostro giuramento: "Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!"». Non è un caso che ancora Gianfranco Fini, mentre ricopriva la carica di presidente della Camera, nel corso della cerimonia di inaugurazione del monumento a Norma Cossetto il 21  febbraio 2009 affermò che «Nostra intenzione è riportare in terra d'Istria non il tricolore di Stato, ma il dialetto, la memoria patria, la cultura, senza  spirito aggressivo (...) ricordando però che l'Istria è terra veneta, romana, dunque italiana.» [1]


Prima ancora di parlare di italiani infoibati ed esiliati in quanto tali dal territorio jugoslavo, occorre quindi tenere bene a mente da dove nasce la Giornata del Ricordo, cioè da un mai sopito spirito nazionalista e revanscista. Basta a tal proposito farsi un giro sul sito dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd), che si definisce come «la maggiore rappresentante sul territorio nazionale degli italiani fuggiti dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia». [2] L’Anvgd, gonfiando come al solito i numeri sul cosiddetto esodo degli italiani e sulla loro morte nelle foibe, considera importante il giorno del ricordo perché «riporta sotto i riflettori quei dolorosi eventi ma nel contempo anche i valori di identità nazionale [e] le parole foibe ed esodo istriano, fiumano e dalmata vengono ravvivate nel loro significato più drammaticamente profondo ma nel contempo in una fiduciosa prospettiva per il futuro». C’è da chiedersi (retoricamente) se la «fiduciosa prospettiva per il futuro» a cui fa riferimento l’Anvgd faccia riferimento all’articolo 2 del proprio statuto con il quale l’associazione si propone di «compiere ogni legittima azione che possa agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria». [3] Se non è irredentismo questo…


E allora è necessario che la Giornata del Ricordo venga sottratta al mito e riconsegnata alla storia. E la storia, ripulita dalle menzogne, dalle falsificazioni e dalle narrazioni ad uso e consumo del neoirredentismo e del neofascismo, dimostra che la minaccia e la teorizzazione dell’infoibamento viene dal nazionalismo italiano in quelle terre fin dall’inizio del secolo scorso [4]. Soprattutto, però, la storia, che non può essere decontestualizzata, dovrebbe ricordare che il fascismo teorizzava il genocidio del popolo slavo, considerato «razza inferiore e barbara come la slava» contro il quale, affermava Mussolini già nel 1920, «non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». E la storia, ripulita dalla falsificazioni neofasciste, dimostra quali politiche di italianizzazione forzata dovettero subire le popolazioni slave soprattutto con l’avvento del fascismo, quali persecuzioni; quali politiche di deportazioni e fucilazioni di massa, distruzioni di interi villaggi in conseguenza dell’occupazione delle terre istriane e dalmate da parte del nazifascismo.


Riportare le foibe fuori dal mito significa affermare che all’indomani dell’8 settembre 1943 e poi dopo la fine della guerra, vi furono certamente, come afferma Claudia Cernigoi «esecuzioni sommarie, vendette personali, e che i corpi degli uccisi furono anche gettati nelle “foibe”. Il fatto è però che i morti non furono migliaia, come la propaganda ha sempre sostenuto, ma tra i trecento ed i quattrocento» [5]; che i cosiddetti infoibati avevano solitamente curriculum di squadristi, aguzzini, torturatori, spie, collaborazioni nazifascisti. [6] Uccisi, in guerra, in una lotta contro il nazifascismo e non contro gli italiani in quanto tali; che non vi fu, quindi, alcun genocidio con migliaia di morti e che non vi fu alcun odio anti-italiano, ma semmai vi fu lotta antifascista nel corso (forse è bene ricordarlo) della Seconda guerra mondiale, il conflitto armato più barbaro che la storia ricordi. Vi fu, cioè, una lotta di Resistenza contro il nazifascismo e la sua barbarie.


Quando questa operazione di smitizzazione viene portata avanti, si dimostra chiaramente che nessuna memoria condivisa è possibile, perché significherebbe infangare la memoria storica antifascista con le falsificazioni e con le teorizzazioni fasciste. Mentre oggi, ancora oggi, a quasi 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla sconfitta del nazifascismo, abbiamo bisogno di affermare chiaramente i valori della Resistenza e dell’antifascismo. Quei valori oggi contenuti nella nostra Costituzione.

Non è un caso che proprio la Costituzione, ultimo baluardo di democrazia istituzionale in Italia, sia messa in discussione con la stessa meschinità, con gli stessi metodi subdoli con i quali viene messa in discussione la memoria antifascista con il mito delle foibe. Se venisse a mancare di senso la memoria storica antifascista, verrebbero a mancare di senso immediatamente anche i principi  costituzionali antifascisti, di democrazia, di pari dignità sociale, di pieno sviluppo della persona umana, di partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese.


Karl Polanyi, antropologo hungerese, affermò che «La soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica. Il sistema economico che era in via di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti ad una rieducazione destinata a snaturare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico.» [7] E' chiaro quindi che la soluzione fascista è un’ipotesi sempre possibile.


Non è un caso che oggi, di fronte ad una memoria storica antifascista compromessa, esattamente in un periodo di «impasse raggiunta dal capitalismo liberale», si tentino riforme in senso antidemocratico, sia in economia che in politica. Esempi molto chiari ne sono la proposta (speriamo senza efficacia) di una legge elettorale (quella proposta da Renzi ed il pregiudicato Berlusconi) in contrasto con la Costituzione [8] e che limita la partecipazione effettiva dei cittadini alla vita politica e rimuove il conflitto di classe per via legislativa. Una legge elettorale che tenta di eliminare la possibilità che il conflitto sociale venga rappresentato in Parlamento come era nelle intenzioni dei costituenti. E non è un caso che Marchionne possa bellamente minacciare di lasciare l’Italia all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale che impone alla Fiat il rispetto del diritto sindacale previsto dalla Costituzione [9]. Non è nemmeno un caso che una banca d’affari come JP Morgan possa permettersi di “suggerire” di rimuovere i principi antifascisti contenuti nella nostra Costituzione [10] per affermare liberamente politiche economiche di austerità che da anni stanno compiendo un vero e proprio massacro sociale.


Ecco quindi l’attualità dell’antifascismo ed al tempo stesso la necessità di non cedere un millimetro di fronte alle spinte bipartisan che vorrebbero imporre un’impossibile memoria condivisa. Nel Giorno del Ricordo, non cedere al revisionismo neofascista e neoirredentista e riportare le foibe fuori dal mito significa appunto questo: difendere la memoria antifascista. Necessaria oggi anche per difenderci dalle politiche antisociali in atto e per lottare contro di esse.

Carmine Tomeo
 

[6] Cfr. CLAUDIA CERNIGOI, Operazione foibe. Tra storia e mito, Udine, Kappa Vu, 2005
[7] KARL POLANYI, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 2010

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