I vizi privati (di Berlusconi) e le pubbliche conseguenze

Le affermazioni di Berlusconi sulla scuola pubblica, i gay, i comunisti e via dicendo con le quali ha scaldato il congresso dei Cristiano riformatori, sabato scorso, devono essere considerate per tutta la potenziale pericolosità che le caratterizza. Affermazioni che possono influenzare la vita privata di normali cittadini e l’esempio che porterò forse può aiutare a capire come.

Un genitore, ha detto il presidente del consiglio, non deve «essere costretto a mandarli a scuola [i propri figli] in una scuola di stato dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli». Ovviamente la libera espressione delle potenzialità, delle attitudini, dei sogni dei figli rimangono schiacciati dalla forza della patria potestà. A voler essere buoni nei commenti, non si può non constatare una ignoranza di fondo del presidente del consiglio, che confonde l’abducere (cioè l’indottrinamento) con l’educare (il tirar fuori, lo sviluppare). Berlusconi ha messo insieme, nel solito minestrone parolaio che caratterizza i suoi discorsi, un po’ di tutte quelle parole d’ordine buone a amicarsi una platea di persone che confondono la religione con la politica e soprattutto a ristabilire un rapporto con i vertici della chiesa cattolica. E quindi il repertorio berlusconiano è stato svuotato sulla platea dei “cristiano riformatori” e perciò gay, comunisti, famiglia, scuola privata sono stati utilizzati in un unico discorso. Il problema della crescita dei bambini in Italia, sono appunto i gay, i comunisti e una scuola che inculcherebbe valori laici e comunisti.

Giustamente si è commentato da più parti quelle farsi di Berlusconi e molti insegnanti della scuola pubblica hanno ovviamente fatto notare, tra le altre cose, in quali difficoltà siano costretti ad insegnare ed in quali condizioni versino gli istituti scolastici. Personalmente ho avuto una diretta conferma dei disastri che i tagli provocano sulla scuola di ogni ordine e grado. Infatti, mentre Berlusconi arringava la platea Cristiano riformista, ero ad un incontro con quelle che saranno le maestre di scuola materna di mio figlio, che ci mostravano aule di pochi metri quadri dove dovranno stare fino a 29 bambini e che chiedevano una mano nel contribuire a fornire gli strumenti necessari alle attività dei piccoli.

Ma, come dicevo, quello che dovrebbe anche spaventare è la pericolosità delle affermazioni di Berlusconi sulla vita quotidiana di ognuno, che è forse difficilmente immaginabile. Ma a sentire parlare di educazione dei figli e affermare insieme un pericolo comunista, mi ha fatto tornare in mente un episodio orribile avvenuto circa tre anni fa, che credo possa rendere l’idea dei riflessi sulla vita quotidiana dei cittadini.
Nel 2008 è successo che a Catania un sedicenne figlio di genitori separati, sia stato affidato al padre perché, secondo il giudice, la madre del ragazzo non sapeva educare il proprio figlio. Una prova di tale motivazione la costituiva la tessera del Partito della rifondazione comunista trovata dal padre nei pantaloni del figlio ed allegata all'ordinanza del Tribunale di Catania.

Anche questo è il prezzo da pagare ai divertimenti berlusconiani Anche questo è un aspetto di influenza sulla sfera pubblica dei vizi privati del presidente del consiglio e delle forme di indottrinamento diffuso e subdolo necessarie alla sua sopravvivenza politica.

Quell'ipocrita commozione sulla tragedia rom

foto di inviatospeciale.com
Se non sarà domani, sarà dopo qualche giorno, ma alla fine saranno dimenticati quei quattro piccoli bambini morti bruciati in un campo rom di Roma. Basta poco, sarà sufficiente rigettare la condizione di vita nei campi rom nel buco nero della cronaca in diretta dalle mutande del presidente. E allora tutto tornerà al suo posto: parole commosse a far vibrare lingue ipocrite; lacrime che non saranno di umanità, ma di coccodrillo; proclami fatti di cose già sentite e utili solo alla diffusione di agenzie di stampa. Alemanno, sindaco di Roma e campione di tutte quelle versioni dell’ipocrisia, ha potuto dire, subito dopo il tragico rogo che «Non possiamo permettere che la gente continui a vivere in baracche di plastica, dove basta un cerino che cade nel posto sbagliato per farle diventare dei forni crematori a cielo aperto». Come se la baracca fosse la causa di quelle morti, e non fosse invece riconducibile ad una politica che in maniera quasi trasversale declina un problema sociale a questione di ordine pubblico.

Solo il velo di un’ipocrita commozione può fare apparire dignitosa la proposta di Alemanno di «arrivare a 10 campi autorizzati e legali» che sostituiscano quelli abusivi. Si tratta in realtà di una politica perfettamente in linea con quella annunciata a settembre dello scorso anno, quando il sindaco di Roma pianificava lo sgombero di 200 accampamenti, alleanze con la Francia che stava già adottando politiche razziste condannate dall’UE e la realizzazione di 10 campi autorizzati e, verosimilmente, controllati dalle autorità. Ordine pubblico, appunto, per affrontare una questione sociale.

E la questione è la considerazione di avere a che fare con “qualcosa” di diverso dagli italiani (dimenticando oltretutto che sono italiani moltissimi rom e sinti), che non potrà mai essere integrato ai purissimi del Belpaese, ma al massimo potrà essere sopportato se tenuto (quel qualcosa) a debita distanza. Come la spazzatura, che si getta in discariche possibilmente lontano dai nostri occhi, perché «i cittadini chiedono sicurezza e rispetto delle regole», ripeteva il sindaco di Milano Letizia Moratti, all’indomani del rogo avvenuto il 27 agosto scorso in un altro campo rom di Roma, nel quale morì un bambino di soli 3 mesi. E gli sceriffi con la fascia tricolore la sicurezza la regalano allontanando gli “indesiderati” dalla vista della brava gente e il rispetto delle regole è viene dall’autorizzazione stessa ai campi, dove gettare i rifiuti umani da utilizzare al momento opportuno dai solerti “imprenditori politici del razzismo”, come li definisce Alberto Burgio nel suo (ottimo) libro “Nonostante Auschwitz.

Così si parla ad esempio di “bonifica dei campi rom” per dire delle ruspe che spazzano via baracche con le poche (e uniche) cose che quella povera gente possiede, compresi i libri ed i quaderni di scuola elementare dei bambini (come avvenuto per lo sgombero del campo di Ponte Mammolo a Roma nel dicembre 2007, con l’allora sindaco Veltroni. Tanto per ricordare la trasversalità di certa “imprenditoria politica”). Oppure si parla, come Alemanno, di «accoglienza sostenibile». Un concetto apparentemente condivisibile, forse proprio perché istintivamente riconducibile alla sostenibilità ambientale. Ma in genere lo si dice con riferimento all’inquinamento sopportabile da un certo ambiente. E denota, quella frase, una netta chiusura sociale, perché ammette elementi (considerati nocivi) fintanto che il corpo (sociale) può assumerne senza conseguenze per la sua forma ordinata e stabilita gerarchicamente, dove ci sentiamo al sicuro, fintanto che ad essere ghettizzati sono gli altri.
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