LATERLITE COME ILVA: IL RICATTO DELLA SCELTA TRA AMBIENTE E LAVORO



Il caso Laterlite di Lentella è emblematico di un modo di ragionare che con Ilva sta facendo scuola. Si mettono l’uno contro l’altro, lavoro e ambiente. Nei fatti si tratta di un vero e proprio ricatto, che dovrebbe essere biasimato, anziché in certo qual modo alimentato con un atteggiamento poco analitico e per niente documentato.

foto da iltrigno.net

È bene far notare che Laterlite oggi non si trova di fronte ad una bocciatura della cava: il Comitato VIA si è espresso con un “preavviso di rigetto” dell’ampliamento della cava. Come lo stesso Comitato VIA specifica, la Laterlite può presentare osservazioni al superamento dei motivi dello stesso preavviso. E solo nel caso in cui Laterlite non produca tali osservazioni o queste non siano ritenute accoglibili, sarà emesso da parte del Comitato VIA il provvedimento definitivo di diniego. Insomma, se Laterlite tiene così tanto al mantenimento della produzione e dei livelli occupazionali nel nostro territorio, non deve fare altro che fornire prove documentali del sostenibile impatto ambientale dell’ampliamento della cava. Una procedura (sembra strano, ma bisogna ricordarlo) prevista dalla legge per numerose tipologia di opere e situazioni e non pretesa in via eccezionale per Laterlite.

È inoltre il caso di ricordare che l’ampliamento della cava preteso (questo, ad oggi, è il termine più esatto per la situazione) da Laterlite ha avuto in questi anni un processo molto travagliato. Nell’ottobre 2010 il Comitato VIA evidenzia che, nonostante l’area oggetto della cava in questione insista “in zona sottoposta a vincolo idrogeologico”, “sono già stati effettuati dei lavori di gradonatura per i quali non è stata fornita documentazione autorizzativa” (il virgolettato è una citazione testuale dal verbale). Insomma, quei lavori, a leggere le note del Comitato VIA, erano in odor di abuso!
Ad oggi, a distanza di mesi dalla prima sospensione del febbraio 2013 della procedura VIA per evidenti carenze nella documentazione prodotta da Laterlite, siamo al “Preavviso di rigetto” definitivo perché, dichiara il Comitato VIA, “persistono le motivazioni di rigetto” di tre anni fa (!), “in considerazione del fatto che il presente ampliamento è di circa un terzo superiore al progetto precedentemente esaminato”.

Insomma, si legge una certa arroganza nell’atteggiamento di Laterlite, che evidentemente considera il nostro territorio come fosse di sua proprietà, dove poter fare ciò che vuole e minaccia chi ostacola la sua volontà. Ma le responsabilità di quanto sta avvenendo non è solo della Laterlite; le colpe sono anche della Regione Abruzzo, che non ha voluto predisporre un piano cave che manca all’Abruzzo da decenni. Siamo in un far west in materia, per mancanza di programmazione e così l’Abruzzo, da regione Verde d’Europa è diventata la regione più bucata d’Europa. Una condizione favorita dalla complicità tra PD e PDL ed al loro fare ossequioso nei confronti dei cavatori, che qualche mese fa affossarono la richiesta di moratoria in attesa di un piano cave, presentata dal consigliere regionale di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo.

La soluzione al caso Laterlite sarebbe semplice: la Regione si doti finalmente di un piano cave;  intanto l’azienda rispetti le procedure imposte dalla legge, come chiunque e non usi il lavoro come un rapinatore usa un ostaggio.


Marco Fars, segretario regionale PRC Abruzzo
Carmine Tomeo, responsabile Lavoro PRC Abruzzo
Maria Perrone Capano, segretaria circolo PRC Vasto
Marilisa Spalatino, segretaria circolo PRC San Salvo-Cupello

VERTENZA EX GOLDEN LADY: L'IMPIETOSA ASSENZA DELLA REGIONE ABRUZZO

L’assenza della Regione Abruzzo nelle vertenze di lavoro ha raggiunto da tempo un livello scandaloso. Lunedì 17 giugno, però, si è oltrepassato il limite della vergogna.


Lo scorso lunedì, presso il ministero dello Sviluppo Economico a Roma, si è discusso della fallita riconversione Golden Lady. Una vertenza travagliata, drammatica ed al limite del grottesco, che ha coinvolto quasi 400 lavoratrici e lavoratori di un’area industriale depressa e che dopo anni non trova soluzione. Centinaia di persone non sono state ricollocate per diverse responsabilità.

Del governo nazionale, che non ha posto alcun controllo sulla fase di riconversione dello stabilimento Golden Lady, sulla quale sono intervenute due aziende: la Silda Invest e la New Trade. Inoltre, il governo Monti, che mesi fa condusse la trattativa per la riconversione, da un giorno all’altro ha sottratto i fondi previsti per la formazione on the job, con il voto favorevole di PD e PDL, non permettendo la piena ricollocazione in Silda Invest dei dipendenti Golden Lady.
Responsabile della situazione odierna è anche la New Trade, che con un atteggiamento che più volte abbiamo condannato, ha potuto finora licenziare e chiudere la fabbrica a propria discrezione, senza che le istituzioni, e quindi anche la Regione Abruzzo, si siano sentiti in dovere di proferire parola. È bene ricordare che la New Trade avrebbe dovuto ricollocare oltre 100 dipendenti Golden Lady, ma che allo stato attuale poco più di dieci lavorano per quell’azienda.
Uno scandalo che la Regione Abruzzo è rimasta a guardare, sul quale come Rifondazione Comunista abbiamo depositato un’interrogazione alla quale, dopo sei mesi, la Regione non si è ancora degnata di dare risposta. Eppure non ci meravigliamo, visto che la Regione Abruzzo, come denunciano giustamente le lavoratrici ed i lavoratori coinvolti nella vertenza, non è stata capace nemmeno di fare un minimo di monitoraggio sulla riconversione. 

L’indifferenza della Regione Abruzzo sul caso Golden Lady (come su altre vertenze), è dimostrato dall’irritante noncuranza con la quale i suoi vari esponenti, Gianni Chiodi in primis, evitano il confronto con le lavoratrici ed i lavoratori, che non perdono occasione per ricordargli il loro dramma. Ultimo di tanti casi, la vistosa presenza di dipendenti Golden Lady all'inaugurazione del rifacimento del centro storico di Villalfonsina, dove Gianni Chiodi aveva fatto la sua abituale passerella.
Con l’ennesima assenza della Regione Abruzzo al confronto sulla vertenza Golden Lady, registrato lo scorso lunedì al ministero dello Sviluppo Economico, si è data l’ennesima prova dell’incapacità della giunta di Gianni Chiodi a risollevare le sorti di un Abruzzo che dall’inizio della crisi ha perso 10.000 posti di lavoro.

Maurizio Acerbo, consigliere regionale PRC Abruzzo
Carmine Tomeo, responsabile Lavoro PRC Abruzzo

La vita e la salute dei lavoratori costano troppo. Via alle semplificazioni sulla sicurezza sul lavoro.




Il governo di coalizione PD-PDL non sa come scongiurare l’aumento dell’Iva, ma sa dove intervenire per ridurre i costi del lavoro. Senza viaggiare troppo con la fantasia, basta ricordare cosa fece il governo Berlusconi e cosa il governo Monti (anche quello sostenuto da PD e PDL): intervenire sui costi che molto spesso le imprese considerano balzelli insostenibili, quelli sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Il metodo per intervenire pure ricalca quello viscido dei governi Berlusconi e Monti: attraverso decreti non direttamente connessi con la sicurezza sul lavoro. Stavolta, come per il governo Monti, le misure di intervento sulla sicurezza nei luoghi di lavoro è il provvedimento in materia di semplificazioni e nel decreto "del fare" prossimi all'esame del governo.
Non intervengo punto per punto sui disegno di legge in discussione. Mi limito ad un paio di aspetti: la valutazione del rischio nei luoghi di lavoro, che viene ancora messa in discussione e la sufficienza con la quale si tratta la sicurezza dei precari. È evidente anche ad un bambino che per prevenire o per mettere in atto misure di protezione contro un rischio, sia necessario conoscerlo.

Oggi, il Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro impone la stesura di uno specifico documento per il coordinamento tra due o più imprese, affinché si possa ovviare ai rischi legati alle interferenze per la contemporanea attività in un dato luogo di lavoro di quelle stesse imprese. Su quel documento, denominato Duvri, pone attenzione anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro. In una relazione di gennaio di quest’anno la Commissione sottolinea che la stesura del Duvri è “un passaggio essenziale proprio all’interno degli appalti e subappalti, sia nel settore pubblico che in quello privato”, “ai fini della tutela della sicurezza e dell’incolumità delle persone”. Ma già oggi questa procedura spesso non è adempiuta o è messa in atto con superficialità, “salvo poi dolersi quando si verificano incidenti o tragedie”. Per questo, scrive la Commissione parlamentare nella sua relazione, “assume grande importanza la corretta valutazione dei rischi da interferenze”. “Questo significa – continua la Commissione - che il Duvri non deve essere interpretato come un mero adempimento burocratico”. Una considerazione che certamente non è stata recepita al momento della stesura, prima del DDL Semplificazioni (dove la parte sul Duvri è stralciata dal testo definitivo) e poi del DDL "del fare" (dov'è ancora prevista), se l’unica preoccupazione degli estensori è quella di garantire un risparmio di circa 390 milioni di euro l’anno. Come? Eliminando l’obbligo del Duvri in caso di settori di attività a basso rischio infortunistico e quando la durata dei lavori non supera i dieci uomini-giorno. Come se la presenza di un rischio reale sia legata in maniera certa e inevitabile a statistiche di infortunio o alla durata dei lavori. E lo stesso approccio è stato adottato per “semplificare” la valutazione del rischio nei cantieri edili, dove già oggi ci si infortuna e si muore con troppa facilità.

Nella stessa direzione va l’attenzione, per così dire, che il DDL pone nei confronti dei lavoratori precari. Perché di questo si tratta quando si parla di lavoratori che lavorano in azienda per un massimo di cinquanta giorni in un anno. Per loro, che evidentemente sono quelli più ricattabili in azienda, il DDL Semplificazioni prevede delle “misure di semplificazione degli adempimenti relativi all’informazione, formazione e sorveglianza sanitaria”. Anche qui, l’approccio è quello temporale, come se la presenza di un rischio fosse legato solo ed esclusivamente al tempo di lavoro. Ma anche sul tema formazione, la Commissione parlamentare ha notato che, laddove pure esistono “normative e regole tecniche molto precise”, queste “talvolta sono disattese”, causando gravi infortuni anche mortali. Tra le inadempienze riscontrate, la Commissione evidenzia come “in primo luogo non vi è sempre un’adeguata formazione/informazione degli addetti”. Secondo gli estensori del DDL, invece, non sarebbe necessaria la formazione o l’accertamento dell’idoneità medica alla mansione del lavoratore, se questo, ad esempio, cambia datore di lavoro ma rimane nello stesso settore produttivo. Ma per comprendere l’assurdità di tale ipotesi, basti pensare che del settore metalmeccanico fanno parte lavoratori Fiat come quelli di una subappaltatrice che opera in un cantiere navale. Ma i primi ed i secondi sono soggetti a rischi completamente diversi (ad esempio, sforzi ripetuti i primi; ustioni e fumi tossici i secondi). Come si può considerare superflua la formazione e sorveglianza sanitaria di un operaio, solo per il fatto che questo lavori meno di cinquanta giorni presso l’una o l’altra azienda? Ovviamente non si può. A meno che non si consideri cinicamente la tutela della salute e dell’incolumità dei lavoratori come un costo da abbattere in nome della “dea Competitività”.

È chiaro che si tratta o di palese ignoranza, o di un approccio ipocrita e strumentale alla riduzione dei costi a prezzo della sicurezza dei lavoratori. Non è una novità. Ma non si può continuare a pensare che l’efficienza delle imprese debba essere pagata dai lavoratori, non solo con in termini di precarietà e riduzione del salario reale, ma anche in termini di salute e incolumità.
Alla fine, le semplificazioni in materia di sicurezza previste nei DDL Semplificazione e "del fare", dovrebbero comportare, secondo i suoi estensori, una riduzione di costo per almeno 3 miliardi e mezzo di euro l’anno. E così, ancora una volta, la vita e la salute di chi ogni giorno è costretto a lavorare per sopravvivere sono messe in un libro contabile. Che poi, tra l’altro, il costo degli infortuni in Italia ammonti a circa il 3% del Pil, poco importa. Questo è un costo sociale; i DDL Semplificazioni e "del fare"si occupano dei costi per i padroni.


P.S.: per alcune prime considerazioni sui singoli punti del DDL Semplificazioni in materia di sicurezza lavoro, rimando a questo articolo di Marco Bazzoni.


[Post aggiornato alle 16:30 del 19/06/2013]

1° giugno 2013: la morte annunciata di Cgil, Cisl e Uil





«Con la presente intesa le parti intendono dare applicazione all’accordo del 28 giugno 2011 in  materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro». Così comincia il protocollo d’intesa tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil firmato lo scorso 1° giugno. Un accordo che viene detto sulla rappresentanza sindacale, ma che in realtà, anche ad una lettura approssimativa si dovrebbe più correttamente definire sull’esigibilità dei contratti. A conti fatti si tratta di un accordo per inibire le lotte dei lavoratori. Solo in funzione di ciò è inserito nell'accordo la parte sulla rappresentanza.
D’altronde l’incipit dell’intesa tra padroni e sindacati confederali è palese, con il suo richiamo a quei nefasti accordi del 28 giugno 2011 che tante critiche mossero sia in ambiente sindacale che politico. Forse non serve nemmeno ricordarlo, ma quegli accordi furono la ossequiosa risposta che Confindustria e Cgil, Cisl e Uil diedero all’arroganza di Marchionne. Non per niente Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria al tempo dell’intesa del 28 giugno 2011, affermava che quella sarebbe stata «una risposta alle esigenze corrette che la Fiat manifesta». Quella stessa intesa aprì la strada, meno di due mesi dopo, all’articolo 8 della cosiddetta “manovra di Ferragosto” che permette alle aziende di derogare a Ccnl e leggi.

D’altronde, come nei peggiori film, il finale era scontato. È vero che l’unica parte degli accordi del 28 giugno richiamata nell’intesa sindacale del 30 aprile (quella, per intenderci, che Cgil, Cisl e Uil hanno sottoposto agli industriali e che costituisce la base di partenza dell’accordo del 1° giugno) è quella relativa all’allegato, dove l’esigibilità dei contratti non è trattata. Ma è vero pure che l’intesa sindacale non metteva affatto in discussione l’accordo del 28 giugno, come in una sorta di “silenzio-assenso”. E comunque, era chiaro che il tema della rappresentanza non poteva essere disgiunto da quello dell’esigibilità dei contratti, unica strada considerata percorribile nella ricerca dell’unità sindacale. Un’unità esclusivamente pattizia.
Inutile ora stare a puntualizzare, come fa il segretario generale della Fiom, Landini che occorre una legge sulla rappresentanza. Di fatto, nello stesso modo in cui l’accordo del 28 giugno 2011 aprì la strada all’abominevole articolo 8, così quest’accordo può aprire la strada ad una legge sulla rappresentanza che prosegue sul solco tracciato dall’intesa del 1° giugno: a contrattare con i padroni sono ammesse solo le organizzazioni sindacali che rinunciano a lottare.

Nello specifico, l’accordo prevede che sono «ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le  Federazioni delle Organizzazioni Sindacali» che, oltre a superare una doppia soglia di sbarramento, siano «firmatarie del presente accordo». Ma questo prevede la «piena esigibilità» degli accordi sottoscritti dalle parti. Non solo: per contrattare i sindacati devono accettare la previsione di «clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa». In poche parole: niente scioperi e sanzioni per chi si oppone agli accordi sottoscritti. Perché, nonostante a parole ci si possa opporre alla previsione di sanzioni, non è chiaro in quale modo si possa garantire diversamente l’esigibilità degli contratti quando ci sia qualcuno che non è d’accordo.
Come se tutto ciò non fosse già sufficiente ad inibire le lotte dei lavoratori, l’accordo del 1° giugno non specifica quali siano le clausole di raffreddamento. Si afferma invece che queste debbano essere definite di volta in volta negli specifici contratti collettivi nazionali di categoria. Non bisogna avere una fervida immaginazione per considerare la possibilità che per le categorie più combattive si prevedano «procedure di raffreddamento» più dure. È un classico e si sintetizza con la ben nota locuzione “divide et impera”.

Di fronte a questo scenario, rallegrarsi per il fatto che i contratti collettivi nazionali debbano essere sottoscritti da «Organizzazioni Sindacali che rappresentino almeno il 50%+1 della rappresentanza» e «previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice» (ma le cui modalità di consultazione non sono definite), suona quantomeno grottesco. E tanto per fare un esempio di ciò che possa significare, basti ricordare gli accordi separati Fiat, anche questi approvati a maggioranza semplice dai lavoratori chiamati al referendum.

In conclusione, è vero: l’accordo che Confindustria e Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto è un passo avanti e di portata storica. Quell’accordo segna infatti un avanzamento dell’egemonia padronale e storicamente intende determinare la fine del sindacato dei lavoratori. Con l’accordo del 1° giugno 2013 si vuol far tornare in scena il sindacato corporativo. Niente di nuovo, per carità: è roba vecchia quanto il patto di Palazzo Vidoni.

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