Due morti ogni miliardo di euro

Nuovo anno, soliti morti. Ieri sul lavoro sono morte 6 persone: una strage. Che non fa notizia perché sono morti avvenute lontane tra loro e perché la divisa che i lavoratori portano non è mimetica. E mentre sto scrivendo articolo21.info conta già, dall’inizio dell’anno ad ora, 79528 infortuni, che hanno causato la morte di 79 persone e l’invalidità per 1988 lavoratori. Siamo nella media, anche in questo inizio anno, con 3 morti al giorno, uno ogni 8 ore. Come è stato lo scorso anno, che ha contato 1080 morti sul lavoro secondo i dati dell’Osservatorio indipendente di Bologna sulle morti sul lavoro, in attesa dei dati ufficiali dell’Inail che ancora non ha emesso il rapporto annuale per il 2009, anno secondo cui ci sarebbe stato un vistoso calo del numero degli infortuni e dei casi mortali.

Nelle ultime settimane del 2010, infatti, tutti o quasi parlavano di conferma della riduzione rilevante degli infortuni e dei morti sul lavoro, con percentuali da far ben sperare per un trend che fosse conseguente a migliori misure di prevenzione o ad una più ampia cultura della sicurezza, oltre che agli effetti della crisi, ma comunque potevano ritenersi incoraggianti percentuali con segno meno, registrando nel 2009 un importante -9,7% di infortuni rispetto al 2008 ed un -6,3% di casi mortali. Ma stiamo parlando di numeri assoluti, che così confrontati spiegano davvero ben poco. Come dire se uno è grasso o magro solo in base al peso, senza specificare se è alto 1 metro e mezzo oppure due metri.

Così mi sono preso la briga di elaborare qualche dato, che fa notare come la situazione del 2009 (che ripeto è l’anno con dati Inail più recente), rispetto all’anno precedente non è assolutamente cambiata nella sostanza.
Un primo elemento da considerare per valutare la frequenza degli infortuni, è il cosiddetto “indice di frequenza” previsto dalle norme UNI. Questo indice calcola gli infortuni occorsi ogni milione di ore lavorate. Il calcolo è molto semplice: si prende il numero di infortuni, lo si divide per le ore lavorate e si moltiplica per un milione. L’Istat ha calcolato che nel 2009 sono state lavorate poco più di 44.000 milioni di ore occupando 29 milioni e mezzo circa di lavoratori, meno che nel 2008 quando si contavano quasi 45.700 milioni di ore lavorate e oltre 30 milioni di occupati. Con questi dati, emerge che ogni milione di ore lavorate, sono occorsi quasi 18 infortuni nel 2009 contro i 19 del 2008. Una differenza di poco conto. Addirittura lo stesso indice ci dice che la frequenza dei casi mortali, avvenuti sul lavoro nel 2009 e nel 2008 sono gli stessi: 1,2 ogni 50 milioni di ore lavorate. Cambia poco o niente, anche se la frequenza infortunistica la calcoliamo in rapporto al numero dei lavoratori occupati. Si ha infatti che nel 2009, ogni 200mila occupati 7 sono rimasti vittime del lavoro, come nel 2008. Si nota quindi immediatamente come certi entusiasmi non abbiano ragione d’essere.

Oltre questo dato, ce n’è un altro molto interessante. Si tratta di quello che mette in rapporto il numero degli infortuni ed il numero dei morti sul lavoro, con il PIL. Non viene mai fatto, ricordo il solo caso del 2008, in un articolo sul quotidiano Liberazione elaborato dal prof. Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio. Perché questo rapporto? Per capire la ricchezza del Paese quanto costi in termini di sacrifici umani da parte dei lavoratori.
Anche in questo caso si nota che tra il 2009 e l’anno precedente si conta lo stesso numero di infortuni per miliardo di euro di PIL (che è stato di 1521 miliardi di euro nel 2009 e di 1568 nel 2008, stando ai dati del Dipartimento del Tesoro): 517 del 2009 contro 558 del 2008. Se in quel rapporto consideriamo i morti sul lavoro, avremo un indice di 0,68 per il 2009 e 0,71 per l’anno precedente. Praticamente da un anno all’altro non è cambiato niente.

Ora, però, sappiamo che il PIL comprende sia i redditi da lavoro dipendente e sia i profitti. Ma è evidente che la riduzione delle misure di prevenzione e la omissione di quelle di protezione, non incidono sul reddito dei lavoratori, ma sui profitti. Un lavoratore non guadagna niente dall’assenza delle misure di sicurezza, mentre si tratta di riduzione del costo del lavoro e quindi va a beneficio dei profitti. E gli infortuni sul lavoro, sono conseguenze della mancata applicazione delle norme di sicurezza. Per questo ho voluto togliermi la curiosità di capire che rapporto ci fosse tra gli infortuni e le morti sul lavoro ed i profitti realizzati.
Dobbiamo considerare che i profitti, secondo lo studio del 2005 della Bir (Banca dei regolamenti internazionali) costituiscono circa il 32% del PIL. Oggi, rispetto al 2005 quella percentuale è cresciuta, ma per i nostri calcoli può essere considerata buona. Con quella percentuale i profitti nel 2009 sono stati 487 miliardi di euro, contro i 502 del 2008. Questi dati ci rendono che per ogni miliardo di profitto si sono infortunati oltre 1622 lavoratori nel 2009 e 1743 nel 2008. E ci dicono, quei dati, che sia nel 2008 che nel 2009, per ogni miliardo di profitto realizzato dalle imprese, 2 lavoratori hanno perso la vita.

Come si vede, quindi, tutto resta uguale. Pure il fatto che in Italia i profitti continuano a realizzarsi anche a costo di vite umane.

La caduta tendenziale del saggio di anzianita' relativa

Mia moglie ha due anni meno di me. Ogni compleanno è l'occasione per prenderci in giro: "oh... sei un anno più vecchia, eh?!" dico io; "Sì, ma tu sei sempre più avanti di me", risponde lei. Ora, capite che questa constatazione apparentemente oggettiva non potevo continuare a sopportarla tanto a lungo, così mi sono messo a riflettere su come confutare quella tesi apparentemente inoppugnabile, secondo la quale io sarei sempre stato più vecchio di lei. Il destino mi avrebbe fatto nascere due anni prima e sarei stato destinato ad essere più anziano allo stesso modo, per sempre? Eh no, cazzo! mi sono detto. Io non credo al destino e non mi lascio corrompere da una logica fatalista. Proprio no!
Solo apparentemente non c'è altra altra soluzione all'osservazione di mia moglie, che quella della resa alla mia maggiore anzianità rispetto a lei. Ed infatti la soluzione c'era, era lì a portata di mano e non la vedevo, come spesso avviene quando cerchi freneticamente qualcosa e poi è lì, sotto i tuoi occhi da chissà quanto tempo, sul tavolo dove pranzi o nelle tasche dei pantaloni. E tu la cercavi ovunque, pure nello scarico della lavastoviglie e nemmeno lì la trovavi.
La soluzione è semplice: non bisogna considerare l'età in numeri assoluti. Non basta una sottrazione tra la mia età e la sua a stabilire quanto io sia più anziano di lei. Quella è solo una differenza di età. C'è bisogno di un rapporto, eh eh! E che ti tiro fuori, parafrasando il sempre caro buon vecchio Marx? La caduta tendenziale del saggio di anzianità relativa. Tiè! beccati questa. Che è pure facile facile da applicare: basta fare il rapporto tra le età, con al numeratore gli anni del maggiore dei due e l'età dell'altro al denominatore. Beh... con il passare degli anni, il numero che viene fuori, che poi è il rapporto di anzianità tra le due persone, diminuisce fino a tendere a uno, cioè un rapporto sempre più piccolo tra numeratore e denominatore, cioè la pari anzianità relativa. Facciamo un esempio: quando io avevo 4 anni, mia moglie ne aveva 2 e 4 diviso due fa 2. Ora che io ne ho 34 e mia moglie 32, il saggio di anzianità relativa è 1,06. Quansi dimezzato! Quindi, se ne deduce che io e mia moglie, alla lunga distanza, tenderemo ad essere ugualmente anziani.
Certo, tende a zero all'infinito. Ma io non ho mica fretta.

Diritti con la data di scadenza, come lo yogurt

Quando tutto viene considerato merce di scambio, dalle auto al sesso, dalle scarpe al lavoro, anche i diritti vengono considerati tali. Una merce, quest’ultima, che come tale non è data per sempre, ma a seconda delle necessità di un profitto, sia esso politico o economico. Nel caso dei diritti dei lavoratori precari, si tratta di entrambi i casi e si tratta di una merce prodotta negli operosi palazzi politici, dove più che rappresentanti dei cittadini sembra siedano capitani d’industria e loro vassalli, a giudicare dai provvedimenti che ne vengono fuori. E’ in questa condizione che i diritti mercificati devono essere ben digeriti da coloro che amano riempircisi la bocca, inghiottirli e poi rilasciare puzzolenti escrementi dove i lavoratori rischiano di affogare. Sarà per questo che ai diritti dei lavoratori precari, serviti alle tavole padronali, è stata data una scadenza, breve come fosse un yogurt.

Si sta parlando del termine stabilito nella legge 8 novembre 2010 n. 183, il cosiddetto “collegato lavoro” approvato dal governo Berlusconi, entro il quale i lavoratori precari hanno possibilità di impugnare un contratto a tempo determinato di dubbia legittimità. Un termine che non esisteva fino allo scorso 24 novembre, giorno dell’entrata in vigore del “collegato lavoro”, e pertanto prima che quel provvedimento fosse approvato, un lavoratore aveva la possibilità di fare causa per un contratto illegittimo, anche a distanza di anni dalla sua conclusione.
La ragione era evidente quanto giusta: non porre la parte debole dei contraenti (il lavoratore) nella condizione di dover scegliere se vedersi riconosciuto un diritto o coltivare la speranza di essere riassunto, magari con un nuovo contratto a termine.

Tutto cambia, appunto, con l’entrata in vigore del “collegato lavoro”, che lascia al lavoratore 60 giorni di tempo dalla scadenza del contratto, per impugnarlo e solo 270 giorni dalla data di impugnazione per ricorrere in tribunale. Poiché l’efficacia di questo odioso provvedimento è retroattivo, tutti i contratti scaduti prima del 24 novembre 2010 possono essere impugnati entro e non oltre il prossimo 23 gennaio.
Per farlo ed avere poi 270 giorni di tempo per eventualmente rivolgersi ad un giudice, occorre inviare una raccomandata ai datori di lavoro presso i quali si è lavorato con contratto a termine, contenente l’impugnazione della risoluzione del loro contratto di lavoro. È il solo modo per vedersi riconosciuti, in base ai singoli casi, un risarcimento o anche l’assunzione a tempo indeterminato. E’ il solo modo, se agito in maniera diffusa, per evitare l’efficacia di quello che di fatto risulta essere un condono per quei datori di lavoro, pubblici e privati, che hanno abusato dei contratti a termine ed approfittato delle condizioni di precarietà dei lavoratori.

Un Marchionne dalla memoria corta fa piu' comodo

Votare sì, tra stanotte e domani, all’accordo su Mirafiori, significa il suicidio del mondo del lavoro. Anzi, dei lavoratori, per essere più precisi. Perché su quel contratto si gioca una partita prettamente politica, che mira, da parte padronale, alla riduzione di diritti che dovrebbero essere considerati perni della civiltà del lavoro e della civiltà umana più generale.Abolire de facto il diritto allo sciopero, costituzionalmente garantito ma impedito da un assurdo accordo che ha visto protagonisti una gran parte sindacale (tutti i confederali, tranne la Fiom), non può essere considerata una scelta per la competitività aziendale. Se ai lavoratori viene meno la più importante forma di lotta per le proprie rivendicazioni, non significa che le auto del gruppo Fiat diventeranno più appetibili ad un mercato che oggi le respinge. Il valore aggiunto di una Bravo non cresce con la riduzione dei diritti dei lavoratori, mentre a ben guardare quanto avviene fuori dai confini italiani, è evidente il contrario e cioè che le auto a più alto valore aggiunto (quelle cioè che consentono maggiori utili) sono prodotte laddove i salari dei lavoratori sono più alti (vedi Francia e Germania) e più basso nei Paesi dove i lavoratori sono più sfruttati. E sarebbe ingannevole fare un paragone a livello di produttività dello stabilimento di Mirafiori (o di Pomigliano, o qualsiasi altro in Italia) con la Cina, il Brasile o la Polonia per giustificare un aumento dei ritmi di produzione, la riduzione delle pause o lo spostamento a fine turno della pausa mensa. E’ addirittura banale sottolineare che produrre una utilitaria cinese ed una Ferrari non è esattamente la stessa cosa. E’ perciò da pazzi anche considerare che un riposizionamento di Fiat nel mercato dell’auto mondiale, ma anche europeo, possa avvenire con un incremento di produzioni di auto a basso valore aggiunto, in un contesto di saturazione del mercato, tanto che già mesi fa il presidente di Ford lanciava l’allarme soprattutto per l’Italia.
Un ricollocamento, quindi, che non è garantito dalla riduzione dei tempi di pausa, né dallo spostamento della pausa mensa, né tanto meno dall’imposizione ai lavoratori di 120 ore di straordinario obbligatorio all’anno. Non regge nemmeno il discorso relativo all'assenteismo per malattia (pretestuoso già nei termini utilizzati), soprattutto nel momento in cui si parla di un tasso di assenteismo per Mirafioei da riportare sulla media nazionale del 3,5%, mentre oggi sarebbe intorno all’8%. Ma a leggere la quinta indagine del Centro studi di Confindustria sul mercato del lavoro nel 2009 il tasso medio di assenteismo a livello nazionale sarebbe invece pari 7,8% . Lo stabilimento Fiat di Mirafiori, quindi, sarebbe in linea con la media nazionale. Né la giustificazione di un accordo di questo tipo può essere dato dalla necessità di riduzione dei costi del lavoro. Questi, infatti, pesano sul costo di produzione dell’auto per non più dell’8%. Di quanto si pensa di poter ridurre il costo del lavoro? Parlare di una riduzione del 10% significherebbe già sottoporre i lavoratori a sacrifici imepnsabili, eppure anche così si avrebbe una riduzione del costo del prodotto di un misero 0,8%. Pertanto, visto che «il costo del lavoro rappresenta il 7-8 per cento … è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi». Perché quest’ultima frase è tra virgolette? Perché sono parole di Marchionne in un’intervista del 21 settembre 2006 rilasciata a La Repubblica. Ma Marchionne, a quanto pare, ha la memoria corta. Il fatto è che quell'amnesia fa comodo a troppi.

Un terra chiamata Mirafiori

«È un discorso pacato che dice, Vogliamo le otto ore, basta lavorare da mattina a sera, e allora i più prudenti si preoccupano del futuro, Che ne sarà di noi se i padroni non vorranno darci lavoro, ma le donne che stanno lavando i piatti della cena, mentre il fuoco arde, si vergognano di quanto sia prudente il loro uomo […] Poi un’altra voce, viene da lì … non è per le otto ore e per i quaranta scudi di salario, ma perché dobbiamo fare qualcosa per non rovinarci, perché una vita del genere non è giusta». 
 Sono passi, questi, del meraviglioso romanzo di Saramago “Una terra chiamata Alentejo”. Mi è tornato in mente ascoltando e leggendo alcuni commenti in merito all’accordo Mirafiori ed alle affermazioni di Marchionne che minacciano chiusure e delocalizzazioni nel caso in cui i lavoratori non accettino le sue condizioni. Alla fine i lavoratori del latifondo del romanzo di Saramago, uniti, riuscirono a spuntarla e a far valere alcune loro rivendicazioni, per quel tempo rivoluzionarie specie in una terra dominata dal latifondismo e con al potere un dittatore come Salazar. Riuscirono, uniti, ad ottenere le otto ore di lavoro ed a non rovinarsi. Erano gli anni, quelli ricordati nel romanzo del premio nobel portoghese, che vanno dall’inizio del secolo scorso fino al 1974, l’anno della Rivoluzione dei Garofani in Portagallo.

Qualche solone di certo modernismo, storcerà il naso a vedere accostato all’accordo di Mirafiori tra Fiat e gli ingialliti sindacati Cisl, Uil e Fismic una terra così lontana nello spazio e nel tempo. Ripeterà magari che i tempi sono cambiati, che il mondo è cambiato, che il lavoro è cambiato e che i rapporti tra lavoratori ed impresa non possono non cambiare. Quegli stessi sacerdoti del liberismo, dicono anche che un sindacato come la Fiom è fuori dal tempo, perché si ostina a rimanere ancorata alla difesa di diritti (qualche volta chiamati, senza vergogna, privilegi) che non avrebbero più ragione di esistere nel mondo globalizzato (delle merci e del denaro, aggiungo io, ché gli uomini e le donne, per molti aspetti, sono considerati meno di una lattina di Coca Cola o di un assegno).
Non si stancano quei pontificatori del primato del mercato di ripetere o di scrivere che bisogna capire che il mondo è cambiato, ogni volta che si tratta di relazioni industriali e sindacali o in genere di rapporti economici. Ma prima o poi qualcuno degli enunciatori di questa litania dovrà pur spiegare cosa voglia dire che "bisogna capire che il mondo è cambiato", sennò, dette così quelle affermazioni possono essere sostituite con non ci sono più le mezze stagioni e nessuno si accorgerebbe della differenza, ché sempre di una frase fatta si tratterebbe, di un motto, di uno slogan.

Il mondo è cambiato, come? Da solo? E' economicamente e socialmente mutato per (dis)grazia divina? Le politiche economiche sono forse manne che scendono dal cielo? E' forse questo che si vuole intendere? Sì, è questo. E' sempre questo! Far passare per “naturale” l'attuale modello economico e politico con tutto quello che ne consegue, comprese le basi dell'accordo tra Fiat e una parte sindacale. Se tale modello è quello “naturale”, evidentemente non si potrà far altro che firmare quell'accordo e chi non lo fa va contro quella “naturalità” e quindi sta per forza di cose sbagliando. Ora, assumere come “naturale” l'assetto politico ed economico contemporaneo, significa, questo sì, ragionare in maniera ideologica, se non peggio e cioè dogmatica.

Un dogma tutto dentro quell’agire politico piegato di fronte a ciò che il sociologo Marco Revelli definisce «dispotismo della realtà», per il quale è lo stato di cose presenti a regolare ogni altra attività. Un agire politico che ottiene il riconoscimento dei più alti e potenti attori sociali e che sottrae spazi sociali e diritti a tutti gli altri. Qualche tempo fa è toccato Pomigliano, fra qualche giorno - speriamo di no – potrebbe toccare a Mirafiori. Ed è facile prevedere che quel dispotismo non si fermerà a Torino.

Considerazioni sul fine pena e sulle marachelle di mio figlio

Prima di correre il rischio di provocare qualche equivoco che possa disturbare la comprensione di questo pezzo, da parte di chi avrà la pazienza di continuare questa lettura, devo dire che mio figlio, alla sua età di poco più di due anni, non ha condanne penali e pertanto non sta scontando alcuna pena detentiva. Eppure, proprio da lui mi è balzata alla mente un’osservazione in merito alle condanne penali ed al discorso del fine pena.

Qualche giorno fa mio figlio ne combina una delle sue. Ci mancherebbe che non facesse alla sua età. Ma insomma, non è che l’educazione data dal genitore può cominciare dopo l’infanzia e quindi alle marachelle qualche volta segue una punizione, che non mi piace mai dare, mi rattrista ed infatti dura in genere il tempo di un “papàaaaa…” detto con occhietti da cerbiatto, come si dice. Ma, a parte le mie debolezze, l’altro giorno, dicevo, mio figlio ne combina una delle sue, butta a terra la pappa della sorellina di sette mesi, così, per giocare e io lo mando in camera sua. Lui non piange, non dice niente, si avvia mortificato verso la sua camera e si mette supino sul letto.

Quando passo per il corridoio per prendere straccio e scopettone per pulire, lo vedo allungato, con la testa sul cuscino e gli occhi aperti, come se stesse ripensando alla sua marachella. Entro nella sua stanza, mi avvicino e lui chiude gli occhi, forse finge di dormire. Esco dalla cameretta e lui rimane lì, in silenzio e occhi chiusi. Mi rendo conto che ha capito di aver fatto una cosa che non doveva e così torno da lui e gli chiedo “Si butta la pappa della sorellina?”, e lui “No”, “Lo fai più?”, “No”, “Però adesso chi pulisce?”, “Io”. Certo, non è che ha fatto il Cenerentolo, ma solo il gesto di raccogliere la pappa da terra. Da qui la riflessione. Io l’ho mandato a letto per dargli una punizione per la sua marachella, ma per quanto tempo sarebbe dovuta durare? Tutto il pomeriggio o mezz’ora? Io l’ho fatta durare il tempo che lui capisse che quella cosa non avrebbe dovuto farla.

Mi rendo conto che si tratta di un metodo che non può essere trasposto pari pari alla giustizia ordinaria, che da una parte si tratta di marachelle e dall’altra di reati, che la pappa buttata per terra non è paragonabile ad una rapina a mano armata. Ma tra la mia funzione di genitore e quella dello Stato forse l’accostamento educativo può essere fatto.
La mia punizione a mio figlio e la punizione che lo Stato infligge a chi commette reato, hanno, al netto di tutte le differenze evidenti, lo scopo di educare. Nel principio costituzionale secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, mi pare sia contenuto l’unico scopo della stessa pena. Si potrebbe considerare l’ipotesi di un fine pena che coincida con la rieducazione del condannato?

Mi rendo conto che si possa correre il rischio di subordinare la condanna ad un eccesso di discrezionalità di un giudice, né mi permetto la presunzione di un approccio filosofico al diritto penale. Non ho competenze dal punto di vista procedurale e tanto meno ho sufficienti basi per filosofare. Parlo da cittadino. E da cittadino qualsiasi, che ha il diritto a vedersi tutelata la propria incolumità dallo stesso Stato che ha il dovere di rieducare un condannato. Bene, da cittadino e guardando anche egoisticamente alla mia incolumità, mi sentirei molto più garantito se un detenuto finisse di scontare la sua pena dopo quella rieducazione richiamata nella Costituzione, anziché se un condannato scontasse tutti i suoi vent’anni per un omicidio senza che lo Stato abbia assolto al proprio dovere rieducativo. Se fosse considerata in questo senso la certezza della pena? Forse sarebbe molto più efficace e non avrebbe quell’approccio vendicativo oggi troppe volte riconoscibile in certi discorsi politici che, mentre dicono di interpretare le paure ed i sentimenti della ggente (con due g), in realtà le paure le creano ed i sentimenti, spesso d’odio, li provocano.

Ma la scelta di poter considerare il fine pena legato alla rieducazione del detenuto, oltre le probabilmente tante implicazioni per me difficilmente immaginabili, costringerebbe lo Stato ad adottare pene alternative al carcere, e nell’assolvere al suo dovere rieducativo del condannato, a rinunciare, oltre che alla pena dell’ergastolo, anche alla bramosia di coercizione che lo porta ad esempio a costruire sempre più carceri. Ma questa è un’altra storia. O forse no.
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