L’ANTIPOLITICA DI BERSANI E VENDOLA





Beppe Grillo non ha il copyright sull’antipolitica. Nell’atteggiamento del Movimento 5 Stelle si legge certamente un’antipolitica volgare, sguaiata, becera. C’è però un modo più infido di essere antipolitica: quest’ultimo lo praticano Pd e Sel, con il richiamo al cosiddetto voto utile.

Quello che conta, dicono Bersani e Vendola, sono solo i voti per battere la destra, per non far vincere Berlusconi. È il «giochino un po' sporco del voto utile [che] serve per parlare a un'Italia che si presume non sia in grado di capire», per dirla con il Vendola del 2008, così distante dal Vendola di oggi che, adagiato sui più sicuri allori di un finto (perché impossibile) riformismo, afferma che «oggi l'unico voto utile è quello per la nostra coalizione». Perché, sostiene Bersani, c’è la politica, «ma poi c'è la matematica». È, appunto, con la matematica e non con la politica che la coalizione Pd-Sel intende battere la destra. Ed è questo l’unico risultato che conta per la coppia Bersani-Vendola.

Il fatto è che a considerare il risultato l'unica cosa che conta, si rischia di sottovalutare e giustificare i modi, spesso pessimi e dolorosi, con i quali quel risultato si raggiunge. E non è scontato che il risultato abbia maggior valore dei modi per raggiungerlo. Quella del voto utile mi pare risponda alla massima machiavellica del fine che giustifica i mezzi. In questa logica ogni considerazione politica, ogni esigenza di gruppi di cittadini anche maggioritari nella società, ogni rivendicazione di una minoranza, ogni dissenso deve essere sacrificato sull’altare di un supposto bene collettivo, che solo in uno slancio populista può prendere ipocritamente le forme di interesse generale. Nel caso specifico, poi, quello sbandierato bene collettivo ha la meschinità di una mera conta dei voti ed a questa stessa meschinità viene ridotta la politica.

Se il fine è semplicemente il risultato aritmetico-elettorale, non c’è spazio per alcuna discussione sugli effetti provocati dai mezzi per raggiungere quel risultato. E nel caso della coalizione Pd-Sel, il fine ‘vittoria elettorale’ si raggiunge con il mezzo ‘presentabilità alla Troika’, la quale richiede che questioni come il Fiscal compact, il pareggio di bilancio in Costituzione, la cancellazione dei diritti dei lavoratori, la negazione del diritto alla conoscenza, non siano discutibili. Quelle questioni e le loro conseguenti devastazioni sociali, che già da tempo stiamo notando, diventano secondarie rispetto al fine ‘vittoria elettorale’. Perché, appunto, quei temi attengono alla politica «ma poi c’è la matematica». E la matematica, a differenza della politica fatta con partecipazione democratica, non può cambiare l’esistente.

Il richiamo al voto utile dimostra, da un lato l’affermazione dell’autoreferenzialità di una politica che vuole essere (questa sì) di casta, attraverso la sottrazione di spazi e momenti di discussione sui temi della politica. E le primarie, in questo senso, sono un velo di posticcia democrazia che copre il processo di sottrazione di spazi di reale partecipazione politica. Dall’altro lato, e citando Gramsci, si dovrebbe considerare che in un sistema elettivo i numeri misurano «l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione» di chi fa politica. E se un partito o una coalizione, cioè se la coalizione Pd-Sel «nonostante le forze materiali sterminate che possiede non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi “nazionali”». Perciò il primato della matematica elettorale, il richiamo al voto utile è antipolitica: perchè di fatto la politica subisce la spoliazione delle condizioni che la rendono realmente praticabile.

Il richiamo al voto utile contiene il messaggio subdolo per le persone che stanno fuori dalla stanza dei bottoni, che non c’è spazio per un giudizio politico autonomo dal leader di turno. È così che, per dirla ancora con Gramsci, la coalizione Pd-Sel toglie alla persona comune «anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale».

La scelta che si presenta oggi, quindi, non è tra voto utile o voto inutile (inteso come Bersani e Vendola). La scelta è tra delegare qualcuno a mantenere (ed anzi peggiorare) le condizioni politiche e di vita attuali o partecipare democraticamente ad una ‘Rivoluzione Civile’ che cambi l’ordine di cose esistenti.

Carmine Tomeo



MARCHIONNE: LICENZIAMENTI, CIG E PAROLE RAZZISTE



Poco più di un mese fa, lo stabilimento Fiat di Melfi riceveva la benedizione di Mario Monti. Era abbastanza chiaro che dalle officine Sata il presidente del Consiglio stava aprendo la sua campagna elettorale. «Oggi, da Melfi, parte un’operazione che non è per i deboli di cuore, ma noi sappiamo che può emergere un’Italia forte di cuore», aveva detto Monti in quell’occasione, durante la quale Marchionne annunciava un investimento di un miliardo di euro, per avviare la produzione di due nuovi modelli di auto. Il fatto è che Marchionne non ha perso il vizietto di tenere praticamente nascosto il piano industriale, come fa notare la Fiom lucana. E non si nascondono i timori per un nuovo caso Pomigliano, con discriminazioni nella rotazione della cassa integrazione.

Ma i timori per un caso Pomigliano a Melfi non possono essere taciuti anche considerando che, nonostante gli annunci in pompa magna ed il ricatto ai lavoratori ed il loro maggiore sfruttamento, la produzione della Panda non ha affatto rilanciato lo stabilimento di Pomigliano. Tant’è che proprio per questo stabilimento sono stati annunciati ben 1.400 esuberi, cha vanno ad aggiungersi alla chiusura dell’Iribus della Valle Ufita, in provincia di Avellino e dello stabilimento siciliano Fiat di Termini Imerese. Eccolo il «il senso di responsabilità che Fiat sente verso il Paese», strombazzato da Marchionne lo scorso 20 dicembre a Melfi, davanti ad un Monti compiaciuto per la riconoscenza mostratagli dall’Ad Fiat «per ciò che ha fatto». E qua, evidentemente, Marchionne si riferiva ad esempio a quella riforma del lavoro che riporta i diritti delle lavoratrici e lavoratori e le loro condizioni di sfruttamento, molto indietro nel tempo.


Sarà per questo che Marchionne, rinvigorito ed entusiasmato dal ritorno di tempi in cui sfruttare gli operai era molto più facile, nei giorni scorsi, a Detroit per il salone dell’automobile, ha annunciato che nel caso di un ritorno delle Alfa Romeo negli Stati Uniti, queste monterebbero wop engines. In pratica motori “wop”, che è il termine razzista con il quale, in maniera profondamente dispregiativa, venivano definiti gli italiani negli Usa. Erano gli anni di inizio secolo scorso, quando i lavoratori (che quando erano italiani erano, appunto, wop, oppure macarrone, black dago, ding, green horns, mafia-mann, napoletano) erano costretti a lavorare più di otto ore al giorno, in condizioni di sfruttamento tali che spesso ci si ammalava e si prendevano paghe che consentivano solo una povera esistenza. Allora i padroni erano padroni. Come anche oggi Marchionne.


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