Negli stessi giorni in cui il
presidente del Consiglio, Matteo Renzi ha iniziato il suo tour europeo per
presentare, cappello in mano, il suo Jobs Act, a Bruxelles si riuniva la Confederazione
europea dei sindacati (Ces) che ha lanciato un messaggio inequivocabile: le
politiche di austerità portate avanti dai Paesi membri dell’Ue sotto dettatura
della Troika stanno aumentando le disuguaglianze sociali. E il fatto che per la
prima volta il vertice del Ces ha riunito i leader sindacali di tutti i 28
Paesi membri denota quanto importante sia rispondere a quelle politiche da
massacro sociale.
Un dato emerge
in maniera lampante e lo fornisce Bernadette Ségol,
segretario generale della Ces: “I salari reali sono diminuiti nel
corso degli ultimi cinque anni nella maggior parte dei paesi dell'Unione
europea”.
È evidente, afferma perciò Ségol, che “L'austerità non funziona”.
Invece il
neo-presidente del consiglio dei ministri italiano, nella conferenza stampa con
Angela Merkel e successivamente nei suoi interventi, ha voluto mettere in
chiaro che l’Italia rispetterà i vincoli europei, riferendosi in particolare al
3% del rapporto deficit/Pil. In buona sostanza Matteo Renzi ha rassicurato la Troika e minacciato i
cittadini del nostro Paese che sarà rispettato quel programma di austerità che
sta producendo il disastro sociale evidenziato dalla Ces. Nel frattempo Renzi
ha illustrato alla premier tedesca il suo pacchetto di riforme, primo tra tutti
il cosiddetto Jobs Act.
Questo
provvedimento, già in vigore, aggrava le condizioni di precarietà lavorativa
puntando su due punti essenziali: i contratti a termine, che la riforma Fornero
aveva già svincolato dall’indicare la causale del contratto, potranno durare
fino a 36 mesi superando così il limite dei 12 mesi ed essere rinnovati per 8
volte (non è un errore: 8 volte!) anziché per un massimo di 2; per i contratti
di apprendistato sono stati eliminati l’obbligo di confermare almeno il 50%
degli apprendisti prima di formalizzare nuove assunzioni e l’obbligo di non
superare il rapporto di 3 apprendisti ogni 2 lavoratori specializzati o
qualificati.
Il mantra è
chiaramente quello solito: occorre una maggiore flessibilità per consentire
alle imprese di rispondere meglio alle fluttuazioni della domanda e perciò
essere competitive.

Il
rapporto Accessor (acronimo di Atypical Contracts and Crossborder European
Social Security Obligations and Rigths) presentato dall’Inca Cgil a Londra lo
scorso novembre, traccia un quadro sulle nuove forme di contratto atipico che
si sono sviluppate in 8 paesi europei: Regno Unito, Germania, Svezia, Spagna,
Italia, Belgio, Slovenia e Francia. Il rapporto dell’Inca evidenzia che“già nel 2005 un lavoratore su quattro era
impiegato con un contratto di lavoro atipico o molto atipico, o semplicemente
senza contratto. E diversi studi, anche della Commissione europea, concordano
sul fatto che durante la crisi questa dimensione del lavoro non abbia fatto che
aumentare (European Commission, 2013), e che quindi l'occupazione sia
complessivamente più precaria oggi che nel 2005 o nel 2007 (Working Lives
Research Institute, 2012).” Eurostat conta in 9 milioni i lavoratori e
lavoratrici con contratti di durata inferiore a 6 mesi, per la maggior parte
giovani.
Eppure sono
molti gli economisti che fanno notare come la precarietà non possa affatto
mitigare gli effetti della crisi, ma invece li peggiora. Se ormai dovrebbe
essere chiaro, dati alla mano, che la precarietà non produce affatto un aumento
dell’occupazione, è bene anche notare che provvedimenti che mirano alla
cosiddetta flessibilità in uscita non hanno effetti positivi nemmeno sul Pil.
Cioè, nemmeno sul denominatore del rapporto deficit/Pil imposto senza alcuna
validazione scientifica al 3% e che Matteo Renzi ha precisato di voler
rispettare. È evidente, infatti, che la propensione al consumo di un lavoratore
precario sia minore rispetto a chi può contare su un lavoro stabile, dal
momento che il primo, rispetto al secondo, è frenato dal maggior rischio di
rimanere disoccupato da un giorno all’altro. È evidente, pertanto, che nemmeno
gli 80 euro al mese possono davvero rilanciare i consumi, com’è nelle
intenzioni dichiarate da Renzi e dal ministro del Lavoro, Poletti se, come
afferma ad esempio il prof. De Nardis, capo economista di Nomisma, generalmente
solo il 50-60% di quei soldi sarà destinato al consumo. E l’effetto sul Pil sarà
tanto minore quanto maggiore sarà la copertura della manovra trovata attraverso
tagli alla spesa pubblica (già annunciati).
E allora, affinché
la crisi non continui ad essere pagata da lavoratrici e lavoratori, la strada
da percorrere in Italia e in Europa è assolutamente opposta a quella perseguita
dai governi dei Paesi europei, in maniera sostanzialmente indifferente che si
tratti di conservatori o socialdemocratici. Occorre cioè rigettare le politiche
di austerità e porre le basi per una politica economica alternativa a quella
fin qui perseguita e antagonista rispetto ai poteri forti che la perseguono,
riportando al centro delle politiche economiche i diritti ed i bisogni delle
lavoratrici e dei lavoratori. Nel percorrere questo sentiero, la sinistra di
classe e davvero di alternativa non può però prescindere dall’assumersi il
compito di lavorare per ricomporre la classe lavoratrice che il capitale ha
frammentato con le sue politiche di austerità e di precarizzazione.
Carmine Tomeo
Resp. regionale
Lavoro, Rifondazione Comunista Abruzzo
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