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Un minuto da detenuto e già mi sentivo soffocare

Mi sentivo il respiro affannato ed ero nella piazza principale della mia città. A Vasto, davanti al palazzo che fu dei marchesi D'Avalos, con ingresso sulla piazza e vista opposta sul panorama del golfo, guardavo una stanzetta di poco più di 6 metri quadri e sentivo l'aria mancare. Una specie di leggera claustrofobia di cui mai ho sofferto. Mi ero affacciato nella riproduzione a grandezza naturale di una cella carceraria. Dentro, ad "arredare" 3 metri per 2 e mezzo, tre letti a castello, un gabinetto con solo una tendina a fingere una separazione ed un po' di privacy, un lavabo e pochi oggetti essenziali.

Si trattava dell'iniziativa organizzata pochi giorni fa a Chieti e a Vasto da "Voci di dentro", rivista scritta quasi interamente da detenuti, per fare riflettere sulle squallida condizione carceraria italiana, che trattiene 70.000 persone in strutture che ne possono ospitare 40.000. Per dire che una vita poco o per niente dignitosa, alla quale sono costretti troppo spesso i detenuti, rende molto più difficoltoso quel recupero che l'art. 27 della Costituzione impone quando recita che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Guardavo dentro la cella e provavo ad immaginare la convivenza forzata di tre persone che per 20 ore al giorno devono dividersi uno spazio che costringe di fatto all'immobilità. Disumanizzante proprio perchè quegli spazi non permettono movimenti minimi necessari al corpo umano, retringono l'immaginazione che credo possa espandersi sempre meno, man mano che il tempo trascorre monotono in carcere.
Sapevo che la mia libertà stava solo nel movimento della testa. A me è bastato girarmi, volgere lo sguardo fuori da quella piccola stanza per tornare a respirare e allungare lo sguardo fin dove la mia vista poteva consertirmi. A 70.000 persone questo non è concesso: a loro è data la possibilità di vedere solo un pezzetto di cielo, un piccolo spazio oltre la cella.

Ma a riportarmi fuori da quel tugurio, a rimettermi con i piedi e con tutti i cinque sensi nella mia condizione di perosna libera, è stato il commento di un passante, che si rivolgeva ai suoi amici di passeggio per dire "ma chi li ha costretti quelli là a commettere un reato". Già sentito molte volte eppure ancora non riesco a rimanere insensibile a frasi come quelle, dette da persone evidentemente libere di muoversi fisicamente ma carcerieri dei loro stessi pensieri, incapaci a quanto pare di riflettere oltre quello che la loro posizione gli mostra immediatamente. Una commento disarmante per la sua enorme banalità, che sottintende la convinzione della volontà a delinquere a prescindere da qualunque condizione. Inaccettabile pure per Lombroso.
La conclusione, miope quanto il commento, è che un detenuto ha niente da rivedicare.

E' stato in quel momento che mi è tornata in mente la riflessione che Gramsci, rinchiuso nella sua cella esprimeva in una lettera a sua moglie Julca, nella quale diceva «che nel caso di un carcerato si possa parlare di «rivendicazioni» in confronto delle persone libere, perché la condizione del carcerato storicamente si ricollega alla schiavitú del periodo classico; in Italia «galera» e «ergastolo» che si adoperano per carcere indicano questa filiazione in modo evidente». Ancora oggi. E abbiamo la presunzione di definirci una società civile.

1 commenti:

  1. Il carcere non si può descrivere da fuori. E chi commenta sciocchezze come quel passante, avvalora l'ipotesi, anzi la certezza, che della propria libertà non si ha coscienza!

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