Un terra chiamata Mirafiori

«È un discorso pacato che dice, Vogliamo le otto ore, basta lavorare da mattina a sera, e allora i più prudenti si preoccupano del futuro, Che ne sarà di noi se i padroni non vorranno darci lavoro, ma le donne che stanno lavando i piatti della cena, mentre il fuoco arde, si vergognano di quanto sia prudente il loro uomo […] Poi un’altra voce, viene da lì … non è per le otto ore e per i quaranta scudi di salario, ma perché dobbiamo fare qualcosa per non rovinarci, perché una vita del genere non è giusta». 
 Sono passi, questi, del meraviglioso romanzo di Saramago “Una terra chiamata Alentejo”. Mi è tornato in mente ascoltando e leggendo alcuni commenti in merito all’accordo Mirafiori ed alle affermazioni di Marchionne che minacciano chiusure e delocalizzazioni nel caso in cui i lavoratori non accettino le sue condizioni. Alla fine i lavoratori del latifondo del romanzo di Saramago, uniti, riuscirono a spuntarla e a far valere alcune loro rivendicazioni, per quel tempo rivoluzionarie specie in una terra dominata dal latifondismo e con al potere un dittatore come Salazar. Riuscirono, uniti, ad ottenere le otto ore di lavoro ed a non rovinarsi. Erano gli anni, quelli ricordati nel romanzo del premio nobel portoghese, che vanno dall’inizio del secolo scorso fino al 1974, l’anno della Rivoluzione dei Garofani in Portagallo.

Qualche solone di certo modernismo, storcerà il naso a vedere accostato all’accordo di Mirafiori tra Fiat e gli ingialliti sindacati Cisl, Uil e Fismic una terra così lontana nello spazio e nel tempo. Ripeterà magari che i tempi sono cambiati, che il mondo è cambiato, che il lavoro è cambiato e che i rapporti tra lavoratori ed impresa non possono non cambiare. Quegli stessi sacerdoti del liberismo, dicono anche che un sindacato come la Fiom è fuori dal tempo, perché si ostina a rimanere ancorata alla difesa di diritti (qualche volta chiamati, senza vergogna, privilegi) che non avrebbero più ragione di esistere nel mondo globalizzato (delle merci e del denaro, aggiungo io, ché gli uomini e le donne, per molti aspetti, sono considerati meno di una lattina di Coca Cola o di un assegno).
Non si stancano quei pontificatori del primato del mercato di ripetere o di scrivere che bisogna capire che il mondo è cambiato, ogni volta che si tratta di relazioni industriali e sindacali o in genere di rapporti economici. Ma prima o poi qualcuno degli enunciatori di questa litania dovrà pur spiegare cosa voglia dire che "bisogna capire che il mondo è cambiato", sennò, dette così quelle affermazioni possono essere sostituite con non ci sono più le mezze stagioni e nessuno si accorgerebbe della differenza, ché sempre di una frase fatta si tratterebbe, di un motto, di uno slogan.

Il mondo è cambiato, come? Da solo? E' economicamente e socialmente mutato per (dis)grazia divina? Le politiche economiche sono forse manne che scendono dal cielo? E' forse questo che si vuole intendere? Sì, è questo. E' sempre questo! Far passare per “naturale” l'attuale modello economico e politico con tutto quello che ne consegue, comprese le basi dell'accordo tra Fiat e una parte sindacale. Se tale modello è quello “naturale”, evidentemente non si potrà far altro che firmare quell'accordo e chi non lo fa va contro quella “naturalità” e quindi sta per forza di cose sbagliando. Ora, assumere come “naturale” l'assetto politico ed economico contemporaneo, significa, questo sì, ragionare in maniera ideologica, se non peggio e cioè dogmatica.

Un dogma tutto dentro quell’agire politico piegato di fronte a ciò che il sociologo Marco Revelli definisce «dispotismo della realtà», per il quale è lo stato di cose presenti a regolare ogni altra attività. Un agire politico che ottiene il riconoscimento dei più alti e potenti attori sociali e che sottrae spazi sociali e diritti a tutti gli altri. Qualche tempo fa è toccato Pomigliano, fra qualche giorno - speriamo di no – potrebbe toccare a Mirafiori. Ed è facile prevedere che quel dispotismo non si fermerà a Torino.

3 commenti:

  1. Alla fine, come sempre è stato, vincerà l'idea pragmatica del Sì, a scapito di tutte le dichiarazioni di principio contro Marchionne, gli Agnelli e l'idea stessa della fabbrica. Ho sempre pensato, dalla fabbrica integrata a oggi, che è finita un'epoca. Dall'avvento di Marchionne, lo status operaio, con le complicanze del governo, e le tacite complicità sindacali, (a volte anche quelle della Cgil) ha fatto una spaventosa retromarcia. Questo fatto mi ha convinto che è veramente finita un'epoca: non si può lavorare in fabbrica quasi come dei "poveri migranti" in terra natìa. Ma pare che alla fine tutti lo vogliano e tireranno un sospiro di scampato pericolo se vinceranno, come penso, i Sì.
    Io credo che la classe operaia, anche senza la Fiat in Italia, sarebbe quella che è adesso: un miscuglio di sentimenti e di illogiche emozioni. In pratica, niente. Ecco perché preferirei che se ne andasse Marchionne con tutti gli Agnelli in Canada. Per gli operai non cambierebbe proprio nulla. L'esempio di Termini è questo: che a poco meno di 11 mesi dalla chiusura, nessuno sventola la pur minima idea! Caro amico, siamo fottuti. Hanno vinto loro. Per ora.

    RispondiElimina
  2. il punto è proprio questo dalla Fiat, da li, nasce, anzi sta per morire, tutto proprio tutto.

    RispondiElimina
  3. mi associo al bell'articolo ed al commento e insomma, qua altro che gambero..

    RispondiElimina

Like us on Facebook
Follow us on Twitter
Recommend us on Google Plus
Subscribe me on RSS